Memorie
Ricordi di vita ed esuli pensieri
di Giorgio Franchetti Pardo
PRIMO ESPERIMENTO DI TELEVISIONE
A CIRCUITO CHIUSO IN ITALIA
Mentre si stanno celebrando in questi giorni i 60 anni di vita della televisione italiana può essere divertente ricordare un episodio non certo conosciuto da molti ma che mi è tornato alla mente appunto come “la nebbia agli irti colli sale…”.
Nella biblioteca di mio padre, ingegnere, figurava già nei primi anni trenta dello scorso secolo un volumetto tecnico nel quale si parlava di televisione. A me ragazzino di 6 - 8 anni la cosa destava curiosità per qualche cosa che oggi si direbbe piuttosto fantascienza che evento futuribile.
Me ne ricordai qualche anno dopo e precisamente in occasione della Fiera Campionaria di Milano del 1939. Mio padre era allora Direttore della sede di Milano dell’ EIAR (la RAI di allora). Tra i vari padiglioni espositivi ve ne era anche uno della EIAR che mirava a evidenziare le varie branche di attività della radio italiana, dallo sport alla cultura alla cronaca ecc. Ma si esibivano anche gli ultimi modelli delle radio (particolarmente nuovi erano il modello della Irradio e quello della Radio Marelli che accoppiavano radio e grammofono in un solo blocco: si parlava appunto di radiogrammofono).
Quell’anno, ma ritengo che ciò avvenisse ogni anno, era stato annunciato che avrebbe visitato la Fiera, inaugurandone l’apertura, lo stesso Re Vittorio Emanuele III .
L’EIAR non si fece sorprendere e preparò una grande sorpresa. Nel proprio padiglione espose un modello di apparecchio televisivo con immagine a circuito chiuso che accompagnava la visita del Re.
Si trattava di un mobile alla sommità del quale vi era un piccolo schermo la cui immagine era visibile attraverso uno specchio. Purtroppo, questa prima prova di televisione italiana non ebbe alcun seguito pratico negli anni successivi: nel 1940 l’Italia entrò in guerra ed sarebbe dunque occorso attendere 25 anni, per l’appunto il1964, per l’inizio delle regolari trasmissioni televisive .
MIEI RICORDI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Il mio primo ricordo dell’entrata in guerra dell’Italia riguarda proprio la dichiarazione di guerra annunciata da Mussolini il 10 giugno 1940 con un atteso ma al tempo stesso temuto suo discorso dal celebre balcone di Palazzo Venezia. Eravamo in vacanza a Firenze nella villa di mio nonno Osvaldo e precisamente in una bella sala al piano terreno: a sentire la radio vi era anche qualche contadino. All’annuncio drammatico del Duce seguì da parte di tutti noi un altrettanto drammatico e significativo totale silenzio. Lo interruppe solo, qualche istante dopo, un icastico commento di un giovane contadino in età da servizio militare: “ Vai, ora ci tocca! ”. E purtroppo ebbe ragione.
Da allora si susseguirono i nostri - ma anche della stragrande maggioranza degli italiani che non si contentavano dei roboanti Bollettini ufficiali - quotidiani ascolti clandestini (la cosa era severamente proibita e duramente sanzionata) della emittente inglese in italiano “Parla Londra” a cura del “Colonnello Stevens”, riconoscibile dalla sigla (si direbbe oggi) delle prime battute della Quinta sinfonia di Beethoven: “tu, tu. tu, tuum....”. Cito a questo proposito un curioso artificio successivamente escogitato dalla propaganda fascista: durante i quotidiani sproloqui dell’allora noto commentatore politico ufficiale Forges Davanzati sui fatti del giorno, si fece intervenire una voce di un inglese, il cosiddetto Spettro, con il quale il nostro commentatore intesseva un irato e deridente dialogo.
Dopo la ripresa della scuola ritornammo a Milano, nostra residenza, dato che mio padre era Direttore di quella sede dell’ EIAR (oggi RAI ). A noi ragazzi la guerra sembrava un fatto tutto sommato lontano, dato che il conflitto sembrava svolgersi in zone remote dall’Italia. Unico segno tangibile era l’oscuramento: fummo tutti obbligati a ricoprire le finestre con strisce adesive e fogli viola che ci sembrarono ridicole misure di protezione, così come ci sembrarono ridicoli gli agenti in divisa militare della UNPA (così si chiamava allora la Protezione civile) e l’obbligo di acquistare maschere antigas da portare con noi nei rifugi in caso di attacchi aerei.
Ma poi venne davvero anche per noi l’epoca dei bombardamenti, preceduti dal lugubre ed insistente preavviso delle sei sirene che annunciavano l’allarme aereo.
Il primo forte e violento bombardamento aereo di Milano accadde nel tardo pomeriggio del 25 ottobre 1942: avevo allora poco meno di 14 anni. Quel pomeriggio mio fratello gemello ed io eravamo andati ad una lezione di ripetizione abbastanza lontano da casa nostra. Per fortuna, però, facemmo in tempo – con grande sollievo di nostra madre già in ansia per noi – a ritornare a casa subito dopo le sirene d’allarme e ad entrare insieme con madre, fratelli e tutti gli abitanti dell’edificio (una allora moderna casa costruita poco prima della guerra e perciò dotata di un vero e proprio rifugio antiaereo con porte blindate a tenuta stagna) nel nostro rifugio. Si trattò di un massiccio bombardamento di tutta la città con spezzoni incendiari: venne incendiata anche la casa di fronte alla nostra (successivamente ci accorgemmo che era stato colpito anche il nostro edificio ma la bomba non esplose). Gli abitanti di quell’edificio si riversarono perciò freneticamente nel nostro rifugio la cui capienza non era però tale da ospitarci tutti: venne a mancarci l’aria e fu necessario riaprire le porte blindate. A fine allarme andammo sul tetto a terrazza del nostro edificio e là lo spettacolo che ci si presentò era impressionante: tutto il cielo di Milano era tinto di rosso e la nostra strada era solcata da scie infiammate lasciate dalle ruote delle poche auto in circolazione che camminavano su un tappeto di quelle che erano chiamate piastrine incendiarie (quadratini di materiale infiammabile contenenti un tessuto imbevuto di fosforo).
Quella sera stessa i nostri genitori decisero di mandarci via da Milano e di portarci l’indomani stesso nella villa del nonno Osvaldo a Firenze. Fu in questa città che noi ragazzi trascorremmo – salvo una parentesi di qualche mese durante i quali per il susseguirsi degli eventi ci trasferimmo nei pressi di Vallombrosa, come dirò meglio più avanti - i restanti anni della guerra e quelli del dopoguerra sino al 1947, quando ci trasferimmo a Roma.
Il 25 luglio del 1943, in tarda serata udimmo lo straordinario e del tutto strabiliante annuncio dato dalla radio che “il Cavaliere Benito Mussolini” aveva rassegnato le dimissioni da Presidente del Consiglio e che il Re aveva nominato al suo posto il Maresciallo Badoglio. Per misurare la straordinarietà dell’evento e per situarlo nel contesto della psicologia dell’epoca, aggiungo qui che in ragione di quanto il nonno Osvaldo, strenuo ed ottocentesco liberale, ci era andato via via descrivendo negli anni precedenti su come fosse organizzata la vita politica italiana prima di Mussolini e su come, con nostra grande meraviglia, l’operato del governo e del suo capo fossero normale oggetto di commenti e di critiche da parte dell’opinione pubblica e dei giornali, la cosa ci sembrava a dire poco strana. Non che Mussolini riscuotesse il nostro consenso e la nostra simpatia ma certo non pensavamo davvero che la sua destituzione – anche se auspicata – fosse imminente e così repentina: nel sottofondo eravamo inconsciamente persuasi che le cose prima o poi sarebbero sì cambiate, ma non sapevamo davvero come, e solo alla fine della guerra. L’impatto emotivo della repentina ripresa in mano delle redini del Paese da parte del Re per noi giovani, nati e cresciuti durante il fascismo ed abituati a sentire parlare del Duce mentre la figura del Re rimaneva costantemente in secondo piano, fu ovviamente immenso. Talmente immenso da essere solo equiparabile, per intensità al tripudio di gioia di un’ampia parte del Paese che, anche alla luce dello sbarco in Sicilia delle truppe degli Alleati, avvenuto appena pochi giorni prima (il discorso di Mussolini secondo cui i nemici sarebbero stati respinti “sul bagnasciuga” si rivelò ben presto come un’ennesima fanfaronata della propaganda del regime), interpretò questo evento non solo come la fine di una lunga fase dittatoriale della nostra storia ma anche come prospettiva di una sollecita fine della guerra le cui conseguenze sulla sempre più difficile vita quotidiana (bombardamenti, lutti, rigido tesseramento dei principali generi alimentari, oscuramento, ecc.) erano divenute sempre più pesanti mettendo a dura prova la rabbia per la forzata rassegnazione davanti alla situazione. Per non parlare, appunto, dell’avvenuto sbarco degli Alleati in Sicilia, peraltro vissuto con sentimenti di demoralizzazione e sconforto, anche se condito con la speranza che esso avvicinasse per noi la fine della guerra.
La ormai celebre frase contenuta in uno dei due messaggi (uno del Re e l’altro di Badoglio) con i quali veniva data la notizia della costituzione di un nuovo governo – entrambi i testi si seppe poi erano stati scritti da Vittorio Emanuele Orlando (“il Presidente della vittoria”, come lo chiamavano coloro che avevano fatto o vissuto la prima guerra mondiale) -, “ la guerra continua (...) l’Italia mantiene fede alla parola data”, suonò come una nota stonata. Ma ci si illuse che fosse un artificio diplomatico per tenere buoni i tedeschi. Non fu così. La guerra continuò ed il Maresciallo Badoglio, nuovo Presidente del Consiglio, diede vita ad un governo militare non privo di qualche durezza, anche se in un clima psicologico molto mutato rispetto alle settimane precedenti.
Venne, poi, l’8 settembre. L’annuncio dell’armistizio non sorprese troppo mia madre che, ce lo raccontò poi, ne aveva sentito parlare a Venezia il 5 settembre come di un evento imminente – peraltro considerandolo una chiacchiera da salotto - nella hall dell’albergo dove ella si trovava avendo accompagnato mio fratello Marcello che in quella città doveva sostenere gli esami per entrare all’Accademia Navale (questa era stata spostata dalla sua sede tradizionale a seguito dei violenti attacchi aerei contro il porto di Livorno). Finì così per mio fratello Marcello anche la sperata carriera di ufficiale di Marina.
L’annuncio diceva che ogni ostilità nei confronti delle truppe anglo-americane doveva cessare, ma aggiungeva che attacchi provenienti “da qualunque altra parte” sarebbero stati respinti: il riferimento ai tedeschi era più che trasparente ed ebbero così luogo (ma noi lo sapemmo solo a guerra finita) valorose resistenze o coraggiosi rifiuti di consegnarsi ai tedeschi, sia in Italia che in varie località estere (tra le più note Corfù ma anche Porta San Paolo a Roma). La confusione che seguì all’annuncio dato verso le 8 di sera fu però grande perché – ed ora mi riferisco a quanto vedemmo noi a Firenze – nessuna chiara disposizione od ordine pervenne alle autorità cittadine ed alle unità militari presenti in città. Ne derivò un totale sbandamento dei reparti i cui soldati, confrontati con la paura delle violenti reazioni tedesche e di una molto probabile deportazione in Germania, non rispondevano più ai loro comandanti e corsero alla affannosa ricerca di abiti borghesi per sottrarsi alla cattura. La situazione divenne subito drammatica ed ancora oggi mi suona nelle orecchie il segnale concitato delle trombe che, nelle ore successive, davano l’allarme dalle caserme. Questa confusione durò un paio di giorni e poi fu evidente lo sfascio totale. Vicino alla nostra villa vi era (e ancora oggi esiste) un’importante caserma. I soldati accorsero al nostro cancello e così svuotammo tutte le nostre riserve di abiti non in uso in quel momento. Seguì l’occupazione tedesca e poi anche la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, proclamata da Mussolini che nel corso dell’estate era stato liberato dai tedeschi e portato al nord ove alla fine installò a Salò, sul Lago di Garda, il suo governo. Le bande partigiane, nel frattempo costituitesi, intrapresero azioni di rappresaglia e di lotta armata nei confronti dei tedeschi e delle ricostituite formazioni militari sotto il comando del Maresciallo Graziani e della milizia fascista con le inevitabili e spesso crudeli rappresaglie da parte delle SS tedesche, delle cosiddette Brigate Nere e dei “marò” del Principe Borghese .
Con la costituzione della RSI venne subito indetto il reclutamento di giovani da destinare alle ricostituite Forze Armate o al lavoro in Germania. I nostri genitori (mio padre era riuscito con uno stratagemma a salvarsi da guai peggiori, essendo stato accusato di avere sabotato – e così era infatti - le linee telefoniche della emittenti radiofoniche milanesi, ed a raggiungerci a Firenze qualche giorno dopo l’armistizio) decisero che era più prudente trasferirci altrove. Fu scelta una gradevole villona in località Ristonchi nei pressi di Vallombrosa. Un particolare che oggi può sembrare strano ed anacronistico è costituito dal fatto che il viaggio, di poco più di 30 km, richiese varie ore perché fu effettuato in carrozza a cavallo, una delle due che il nonno Osvaldo aveva acquistato all’inizio della guerra per andare avanti ed indietro dalla villa alla città, dato che l’uso delle auto era stato abolito, prima in pratica, a causa del forte razionamento della benzina per usi privati e poi del fatto che, con l’avanzare della guerra, era stato vietato del tutto. Con noi vennero ad abitare in tempi diversi anche un nostro zio ufficiale di marina ed un altro ufficiale, entrambi nascosti. La vita quotidiana si svolgeva tranquillamente anche perché era con noi una coppia di domestici. Un episodio divertente fu il momento in cui il parroco di quella chiesetta, vecchio, mezzo cieco e mezzo sordo fu obbligato a leggere dall’altare un messaggio nel quale gli si imponeva di suonare le campane ove si fosse svolto uno sbarco di paracadutisti: ci disse che, se si vedevano “i parapà,paparà...insomma quelli che scendono con l’ombrello”, lui doveva suonare le campane e aggiunse, in buon dialetto toscano :”io ‘un ci vedo e ‘un ci sento, le campane sono là se volete ve le sonate ! “ .
Alla fine delle scuole mio fratello Vittorio ed io ci presentammo al Ginnasio Liceo Michelangelo ove eravamo stati iscritti per sostenere l’esame di quinta ginnasio ed ammissione al liceo. Durante le prove squillò l’allarme e dovemmo andare nel precario rifugio della scuola. Poiché la villa del nonno era stata occupata dai tedeschi andammo coi genitori in un albergo sul Lungarno e da lì osservammo più di una volta le cosiddette Fortezze Volanti americane sorvolare la città per andare a bombardare località vicine. Ricordo ancora l’impressione di forza e di sicurezza che ci destavano, così come la meraviglia delle scie che lasciavano in cielo quegli aerei. Un giorno, mentre eravamo a cena nel ristorante dell’albergo, avemmo notizia di un attentato che costò la vita ad un dirigente fascista fiorentino di qualche spicco.
Qualche mese dopo, in pieno inverno, Carlotta Orlando (figlia di Vittorio Emanuele Orlando il quale nel corso dei mesi estivi si era stabilito a Roma) ci pregò di andare a vivere con lei nel vicino castello di Campiglioni (proprietà appunto degli Orlando) per evitare che esso venisse occupato da sfollati (la vicina Pontassieve, importante nodo ferroviario, era oggetto di ripetuti attacchi aerei da parte degli inglesi: ricordo distintamente i bengala che di notte illuminavano la zona di bombardamento). Con noi vennero ad abitare colà anche una coppia di anziana madre e figlia, ebree e, più tardi, un non meglio identificato operaio comunista con la moglie, nonché l’allora ben noto attore Gandusio (famose e da noi graditissime certe sue battute estemporanee di assoluta comicità). Poi, se mal non ricordo, anche Carlotta Orlando lasciò il castello mentre nel frattempo i tedeschi si erano andati attestando sulla cosiddetta Linea Gotica e alcune bande partigiane operanti nella zona del non troppo lontano Pratomagno andavano compiendo azioni di disturbo contro i tedeschi. Fu dunque deciso che era più opportuno per tutti noi (anche perché Vittorio Emanuele Orlando ed il nonno Osvaldo, che era stato prima arrestato poi rilasciato dalla Banda Carità che si era installata a Firenze, erano visti dal nuovo governo fascista come dei pericolosi punti di riferimento degli antifascisti) raggiungerlo colà ma non nella sua villa, nel frattempo occupata dai tedeschi, bensì in un villino vicino a Settignano e a Maiano (situato nei pressi della Pensione Bencistà tuttora esistente con questo nome) di proprietà di amici del nonno Osvaldo e presso i quali egli si trovava. Il villino in questione affaccia con due piani sulla strada comunale ma noi abitavamo nel piano sottostante alla sede stradale che si apriva su un ampio giardino delimitato da tre muri ed al fondo del quale vi era un altro piccolo edificio. In quest’ultimo abitavano due giovani ebrei, fratello e sorella (pianista di qualche merito). Fu qui che vivemmo sino al momento della liberazione di Firenze. Fu qui che apprendemmo la notizia dell’uccisione nella, non lontana da noi, villa del Salviatino del filosofo Gentile ad opera di un gruppo di partigiani della formazione GAP, e fu qui che il 6 agosto udimmo alla radio inglese la strabiliante notizia del lancio della prima bomba atomica sul Giappone.
Ma qui occorre fare una precisazione. L’ingresso delle truppe degli alleati nella parte oltrarno della città – preceduto di uno o due giorni dalle formazioni partigiane - ebbe luogo il 16 agosto del 1944 ma la liberazione dell’intera città avvenne per gradi, cosicché, mentre noi dalla nostra abitazione sentivamo le campane a stormo per l’avvenuta partenza dei tedeschi e dei contingenti fascisti ( detti “repubblichini” ) dalla maggior parte della città, in realtà avevamo ancora sulla nostra testa un gruppo di tedeschi che avevano occupato la parte alta della nostra villetta. In sostanza, eravamo sull’ultima linea di occupazione tedesca: i partigiani erano a poche centinaia di metri dalla nostra villetta ma...dall’altra parte del mondo! Trascorse così qualche giorno di grande preoccupazione e di notevole frustrazione e con scarse riserve di cibo (un sacco di riso e qualche scatola di latte condensato). Mancava anche l’acqua, che dovemmo andare ad attingere nel pozzo del giardino vicino superando per l’appunto uno dei muri di cinta: una volta i tedeschi ci tirarono una fucilata, per fortuna a vuoto. Cadde anche un piccolo proiettile di obice nel nostro giardino, per fortuna senza nostri danni. Una sera avemmo anche l’impressione che si fosse rifugiato da noi un ferito perché udimmo dei ripetuti suoni lamentosi provenire dal giardino ma per fortuna e con grandi nostre risate ci rendemmo conto che ci eravamo sbagliati: si trattava di un gatto in amore!
Qualche giorno dopo anche noi fummo finalmente liberi e così fu deciso di lasciare quella villetta nel timore di un ritorno dei tedeschi. A piedi e spingendo un carretto con le valigie (anche il nonno Osvaldo che era molto anziano) andammo tutti ad abitare in casa del nostro fattore in attesa di controllare cosa ne fosse successo della villa. Avendo constatato che nulla di serio era accaduto, ritornammo finalmente a casa. Passò così tutto l’inverno e noi tornammo a scuola, che raggiungevamo per lo più in bicicletta (circa 6 km) attraversando, tra l’altro, una piccola strettoia del paese di Rovezzano che a mala pena consentiva il passaggio degli automezzi e dei carri armati alleati. Sulla casetta che delimitava questa strettoia capeggiava ancora la scritta mussoliniana “ Noi tireremo diritto”: ci faceva molto ridere perché si trovava su una curva! Un ironico presagio del futuro del regime fascista?
Parte della nostra villa - e di due altre vicine - era stata requisita dagli inglesi per farne la residenza di riposo di loro ufficiali: fu una convivenza piacevolissima, prima con un inglese, sostituito più tardi da un polacco “ nipote del Quo Vadis”, come lui diceva: era, infatti, nipote dell’autore di quel noto romanzo. L’inverno passò lentamente perché le operazioni belliche si erano cristallizzate sulla Linea Gotica e, quindi, a non grande distanza da noi. Un nostro amico ufficiale inglese ogni tanto ci diceva – con tipica flemma britannica - che l’indomani non lo avremmo visto “ because I am going to fight “.
Poi, con la primavera, il fronte si andò progressivamente spostando sempre più a nord ed anche il nostro amico inglese ci lasciò e venne il polacco, un poco pazzo ma simpatico, accompagnato da una ufficialessa, polacca anch’essa. Parlava un italiano approssimativo, per noi oggetto di ilarità come quando, raccontandoci che durante una sua recente licenza in Italia era ingrassato, ci disse “pantaloni non posso!”.
Il 25 aprile 1945 giunse finalmente la notizia della fine delle ostilità: fu un grande sollievo ed una grande gioia. Ma il nostro ufficiale polacco pensò che non eravamo poi così contenti perché –spiegò con grande naturalezza di fronte alle nostre rimostranze per tale sua impressione - “but you are not drunk! “.Fu il mio primo contatto con abitudini polacche.
La bufera era passata e la nostra vita riprese i ritmi abituali. Dopo la licenza liceale, presa nel luglio 1947, ci trasferimmo definitivamente a Roma .
MINISTERO DEGLI ESTERI A PALAZZO CHIGI
Nel 1955, anno del mio ingresso nella allora chiamata carriera diplomatica-consolare, il Ministero degli esteri era ancora ospitato a Palazzo Chigi. Per essere più precisi, solo il nucleo principale del ministero era in quel palazzo perché numerosi altri uffici e servizi erano dislocati in altri tre o quattro edifici romani in parti diverse della città. E questa non è la sola differenza che corre tra la struttura del ministero di allora e quella attuale. Ben più importante è il fatto che nell’odierno organico del personale direttivo vi sono solo due grandi carriere direttive: quella diplomatica-consolare e quella amministrativa, anche se quest’ultima si articola poi in modalità plurime. Allora vi erano invece, oltre alla carriera diplomatica–consolare, anche le seguenti altre carriere direttive: commerciale; stampa ; emigrazione; una articolata carriera per l’Oriente (quest’ultima con diversificazione per grandi aree geografiche e linguistiche). Tra l’altro per queste carriere direttive non era previsto uno sviluppo che arrivasse al grado e alle funzioni di capo missione diplomatica. Inoltre non esisteva una carriera direttiva amministrativa: le mansioni amministrative erano affidate ai Cancellieri, funzionari questi appartenenti alla carriera di concetto (gruppo B come era chiamata ).
L’accesso alle varie carriere era allora come oggi legato al superamento dei concorsi ad essi relative. Quello alla carriera diplomatica-consolare prevedeva che le prove scritte si svolgessero nell’apposito scarno edificio di stile vagamente umbertino detto Palazzo degli Esami situato in prossimità di Viale Trastevere, mentre le successive prove orali avevano luogo al piano nobile di Palazzo Chigi, ove a testimoniare gli antichi fasti nobiliari del Palazzo vi sono tuttora ben conservati soffitti affrescati, porte dorate, ecc. Quando si entrava trepidanti nella sala ove era allestito il grande tavolo a forma di ferro di cavallo coperto da panno verde dietro al quale erano seduti tutti i membri della commissione giudicatrice presieduta da un Ambasciatore, si percepiva dunque già il primo sentore di una particolare atmosfera di solennità che incuteva nei candidati sentimenti di riverenziale timore non disgiunto dall’idea che se si fossero superate le prove si sarebbe entrati a fare parte di un mondo ove storia, tradizione e perché no raffinatezza e politica ci avrebbero accompagnato nella nostra futura vita: insomma si aveva la convinzione di non essere destinati a divenire dei semplici burocrati anche se parlare di casta diplomatica - che sarebbe stata riservata solo a rampolli di nobili od illustri famiglie come voleva la vulgata - era certamente un’ immagine del tutto priva di fondamento ed assolutamente fuorviante rispetto alla realtà della composizione sociologica dei diplomatici.
Gli ambienti di Palazzo Chigi erano nella maggior parte dei casi inadeguati ad ospitare gli uffici ministeriali Ad esempio, l’Ufficio II della DGAE aveva solo due stanze: una per il capo ufficio e l’altra per tutti gli altri funzionari. Poiché però noi eravamo sei e la nostra stanza conteneva a stento solo quattro scrivanie, due funzionari minori venivano in ufficio a turno solo nel pomeriggio (a quell’epoca l’attività di ufficio prevedeva orari pomeridiani che si chiudevano spesso oltre le 20,30 ) Per di più quando veniva qualcuno per parlare con il vice capo ufficio od altro funzionario uno dei più giovani doveva alzarsi e lasciare la stanza per consentire alla persona in questione di avere una sedia su cui sedersi. Le segretarie di tutti gli uffici della Direzione Generale erano riunite in un unico stanzone, con le immaginabili complicazioni che derivavano dall’essere essa una sorta di pool ove il ticchettio delle macchine da scrivere (i computer non erano ancora stati inventati né vi erano fotocopiatrici! ) era davvero assordante. Alcuni uffici erano anche confinati in polverose e basse stanzette, quasi in un sottotetto !
Dicevo più sopra delle tradizioni: ebbene, il giovane entrato con la qualifica di volontario dava del lei praticamente a tutti i suoi, anche se immediati, superiori ancorché essi fossero di poco più anziani di lui e veniva ricambiato con un “lei” da tutti a meno che non sussistessero rapporti di amicizia personale. E del lei veniva dato e ricevuto dal nuovo entrato( ora non più “volontario”) ai funzionari a partire almeno dal grado di Consigliere di Legazione, grado questo che si ricopriva dopo circa dieci anni di servizio. Ma vi era anche dell’altro: si andava in ufficio con abito completo essendo considerato non di buon gusto vestirsi con giacca e pantalone scompagnati neppure al mattino. I Direttori Generali poi – personalità che ci sembravano vivere nell’Olimpo – soprattutto nel pomeriggio erano praticamente sempre vestiti con abiti scuri se non addirittura con giacca nera e pantaloni grigi rigati (così ricordo ad esempio l’Ambasciatore Attilio Cattani a quell’epoca Direttore Generale degli Affari Economici;. lui era una vera potenza rispettato anche nei temuti ambienti del Ministero del Tesoro ! ). Questa solennità non impediva però che vi fosse tra tutti un senso di “appartenenza” ad uno stesso mondo cui i giovani cercavano di uniformarsi ed amalgamarsi: il ridotto numero di nuovi entrati annualmente rendeva questa involontaria - ma tutto sommato utile per la formazione di un sano spirito di corpo - mimesi possibile e facile. Non a caso nei salotti ed in ambienti giornalistici romani i giovani virgulti diplomatici venivano talvolta definiti, con tono di affettuosa canzonatura “ Chigi boys “. Ma non era certo assente tra i giovani un sano ed irriverente spirito di stampo che definirei goliardico nel cogliere divertenti aspetti caratteristici di taluni personaggi ministeriali. Ricordo ad esempio il nomignolo affibbiato al numero due della Direzione Affari Economici la cui caratteristica era di avere una scrivania piena di telefoni e campanelli per chiamare o parlare con questo o con quel funzionario od usciere senza muoversi dalla stanza e che per questo era stato soprannominato “ Sitting bell ( in memoria del salgariano capotribù indiano Sitting bull ). Così come ad un Direttore Generale del Personale non certo animato da spiccato dirigismo quando presiedeva il Consiglio d’amministrazione, era stato affibbiato il titolo di “coniglio d’amministrazione”. E molto più tardi, durante il primo incarico ministeriale agli Esteri dell’On. Fanfani (essendo egli di bassa statura e di Arezzo venne da taluni etichettato “il basso aretino” in contrasto con il termine di alto-atesino ) per identificare un gruppo di rampanti funzionari a lui politicamente vicini venne coniato - ma qui la bonomia c’entrava poco – il termine di Mao-Mao ( che niente aveva a che fare con il leader cinese, bensì con un agguerrito e feroce gruppo etnico africano allora molto attivo specie contro i bianchi e gli inglesi ).
Fu quindi con grande meraviglia che quando fui trasferito al Servizio Nazioni Unite, creato quando l’Italia venne ammessa all’ONU, il Capo di quel Servizio mi invitò a dargli del tu anziché del lei perché a suo dire ciò avrebbe reso più facili i rapporti di lavoro. Ne fui ben lieto e lusingato ma.... il Vice Capo (successivamente sostituito da un funzionario più in linea con il nuovo Capo servizio ) continuò a darmi e a pretendere che gli dessi del lei! Il nuovo avanza sempre lentamente.....
Tra i ricordi divertenti di quell’epoca mi piace citarne altri due.
Allora il traffico romano era ben lungi dall’essere caotico come adesso ed era possibile parcheggiare l’auto nella stessa Piazza Colonna grazie all’aiuto di un parcheggiatore abusivo che - per togliersi d’impaccio nell’indirizzarsi al sopravveniente - gli si rivolgeva a seconda dell’età con la qualifica di “Dottore”, “Consigliere” o ai più anziani di “Ministro”. Le mance dovevano essere naturalmente in proporzione!
L’altro episodio riguarda per così dire il settore giornalistico. Vi erano allora dei quotidiani che avevano anche una edizione pomeridiana e naturalmente la vendita di copie di questi giornali da parte degli “strilloni” - così erano detti i venditori di giornale in strada (le edicole non erano così numerose come ora) – era molto difficile. Si trattava sovente di personaggi pittoreschi che si arrangiavano come potevano per vendere le copie loro affidate: vi era persino ogni anno una gara ufficiale organizzata per premiare chi vendesse più copie nel tragitto da Piazza del Popolo a Piazza Venezia. Gli “strilloni” facevano quindi del loro meglio per attrarre con annunci roboanti la folla: si trattava per lo più di cronaca nera annunciata con “l’orribile sciagura con molti (spesso inesistenti) morti e feriti” oppure “er mostro de Nerula” e cose simili. Nel caso in questione, in un momento delicato del panorama internazionale lo strillone che operava nel sottopassaggio di Piazza Colonna (ora occupato da negozi ), un vero genio nel suo genere, si mise ad urlare: “Dichiarazione di guerra!...America, dichiarazione di guerra ...America!” Tutti naturalmente si affrettarono a comprare il giornale...........per fortuna si trattava solo di dichiarazioni rilasciate in America da ...Learco Guerra un ben noto ciclista !
In Piazza Colonna vi era allora una rinomata pasticceria sul lato opposto di Palazzo Chigi: là sostavano a fine mattinata le giovani mogli che venivano a prendere i mariti all’uscita dal Ministero: una abitudine questa quasi totalmente ora scomparsa anche con l’avvento delle moto e motorini che affollano il nuovo edificio della Farnesina. Si creava così anche una certa consuetudine di contatto tra le mogli dei giovani diplomatici, così come avviene oggi per le madri che prendono a scuola i loro piccoli figli.
Ancora una notazione di colore: vi era un dipendente del Ministero per il quale – si diceva – venivano automaticamente aperte con piacere le porte di tutti gli uffici. Non era certo uno qualunque: era il Cancelliere della Direzione del Personale che consegnava individualmente a ciascuno di noi a fine mese la busta dello stipendio ed a metà del mese eventualmente quella dello straordinario. Per svolgere questa delicata mansione si serviva, per girare nei corridoi, di un carrello che trasportava una cassetta rettangolare di legno qualsiasi ove erano diligentemente inserite le singole buste e che specialmente a noi più giovani appariva come uno scrigno dorato e davvero molto ambito ed atteso data l’esiguità delle retribuzioni allora vigenti.
Fu da questo palazzo e da questa realtà che mi allontanai per sempre nel 1957 quando venni destinato come Vice Console al Consolato Generale di Barcellona: la prima delle mie molte destinazioni all’estero.
Quando, dopo circa otto anni di servizio all’estero, nel 1965, tornai al Ministero tutto era cambiato: il Palazzo della Farnesina aveva rimpiazzato Palazzo Chigi e, lusso immane ed impensabile per noi, “vecchi “, avevamo addirittura una stanza per ciascuno ed addirittura una segretaria! Si trattò di un cambiamento radicale.
Ma la vera svolta epocale non era ancora avvenuta. Essa ebbe luogo due anni dopo, nel 1967, con il dirompente e da allora divenuto famoso D.P.R. 18. Questo decreto presidenziale attivato da una legge delegata operò la fusione di tutte le preesistenti carriere direttive del Ministero degli Esteri nella nuova unica carriera diplomatico–consolare.
Ma vi fu anche un altro evento altrettanto innovatore, venne aperto alle donne l’accesso alla nuova carriera unificata, anche se a dire il vero un chiaro prodromo di quest’ultima rivoluzione si era già avuto qualche anno prima quando le donne erano state ammesse alla allora ancora esistente carriera commerciale.
Da allora in poi non più “Chigi boys”, bensì ora “ funzionari della Farnesina”.
Non si trattò soltanto di un mutamento di nomignoli: il bando di concorso per l’assunzione dei nuovi diplomatici mise a disposizione non 10 o 15 posti come avveniva prima, bensì 40 o 50, a seguito sia di un ampliamento dell’ organico dovuto dalla necessità di ampliare la nostra rete diplomatica e consolare all’estero sia anche alla esigenza di inglobare i posti che prima facevano parte dell’ organico delle altre ricordate carriere direttive.
Ne conseguì che non si creò più quello spirito di camerateria tra gli appartenenti allo stesso concorso cui accennavo più sopra e che i nuovi immessi non venissero più facilmente e presto “ metabolizzati” e per così dire “omogenizzati” dai più vecchi. In sostanza si produsse una sorta di mutamento del modo di essere e di comportarsi delle nuove leve tra di loro e nei confronti fra vecchie e nuove leve.
BARCELLONA
Quando nel marzo 1957, non ancora trentenne, assunsi le funzioni di Vice Console nel Consolato Generale d’Italia a Barcellona la città si presentava in modo assai diverso rispetto all’attuale grande metropoli. La Plaza de Cataluna con la sua magnifica fontana dotata di affascinanti giuochi di acqua e di colori,oggi una delle piazze importanti per il traffico cittadino,era quasi ai margini di quella parte della città. Lo stesso dicasi della zona della Barceloneta ora piacevole complesso di ristoranti di moda : ai miei tempi era una zona di spiaggia ove si facevano i bagni oppure ci si rimpinzava di pesce e di “mariscos” nei pochi rustici ristorantini a bordo spiaggia. Il centrale Paseo de Gracia non era ancora intasato di macchine anche se i mitici ed onnipresenti taxi gialli e neri allora come ora erano sempre a portata di mano e di tasca dato il loro sostanzialmente modico prezzo.
Ma vi erano altre caratteristiche sicuramente ignote ai molti turisti che inondano la capitale catalana e forse anche agli stessi giovani barceloneti di oggi. Per citarne una, davvero allora non secondaria per la vita di tutti i giorni, mi limiterò a dire che vi erano ancora limitazioni di energia elettrica i cosiddetti “cortes”. L’inconveniente non era da poco per chi come nel nostro caso abitava ai piani alti di un edificio perché, essendo molto diffuso il riscaldamento a carbone con caldaia individuale, costringeva a prendere il carbone al piano terra e caricarsi i sacchi per portarli su ( noi eravamo quasi all’attico e quindi mia moglie e la domestica ( per fortuna entrambe giovanissime )di tanto in tanto si acconciavano a questa pesante bisogna.
Il Consolato Generale italiano si trova ancora nello stesso luogo: all’angolo tra Calle Mallorca e la Via Layetana ma si è ingrandito occupando un piano in più. Si tratta di una localizzazione molto appropriata perché si trova in un luogo nevralgico della città. Questo era particolarmente importante allora perché approdavano al porto, oltre alle navi da carico che portavano in Italia soprattutto il sughero allora molto usato anche nell’edilizia, anche le grandi navi di linea per le rotte del nord e del sud America. Sia le une che le altre erano obbligate a contattare il Consolato Generale per fare stato dei loro carichi di merci e di passeggeri e a pagare previa vidimazione dei libri di bordo i corrispondenti diritti consolari. La facilità di andare e venire dal porto era perciò un fattore non trascurabile.
La collettività italiana godeva allora di prestigio sia per la qualità dei suoi componenti (alcuni di questi funzionari o rappresentanti di importanti imprese italiane, sia per il ruolo che ricoprivano le istituzioni locali culturali : la Casa degli italiani, la scuola italiana. Vi era allora anche una importante stagione lirica italiana nel famoso Liceu. Per dare un immagine concreta della rilevanza della nostra collettività basterà dire che all’annuale “Ballo degli italiani”, che aveva luogo in un importante albergo e comportava il frac per gli uomini ed il vestito lungo per le signore, partecipavano esponenti della buona società barceloneta.
Mi piace qui ricordare un divertente episodio riguardante la presenza italiana. In una cittadina industriale non lontano da Barcellona venne inaugurata una industria tessile per il finissaggio della tela prodotta. Approfittando di una visita del Generalissimo Franco in quella zona egli fu invitato a visitarla. Ai nostri tecnici non andò giù che venisse esaltata quella fabbrica come iniziativa spagnola e si organizzarono per fare uno scherzo. Giunto alla fine del processo produttivo fecero trovare a Franco tre linee di tessuto finito colorati ….uno in bianco uno in rosso ed uno in verde ! Franco capì l’antifona e non se ne adontò.
Un evento di memorabile rilevanza fu la visita ufficiale fatta dalla intera flotta italiana nella primavera del 1957 : fu questa la prima visita all’estero della nostra Marina dopo la conclusione della guerra.
Sotto il comando dell’Ammiraglio Marini giunsero al porto di Barcellona una ventina di navi tra cui due caccia e varie unità minori. L’accoglienza delle autorità locali fu davvero spettacolare : ricordo tra l’altro un sontuoso pranzo ufficiale offerto dalla massima autorità locale, nel palazzo governativo situato nel quartiere medioevale della città, con gli ufficiali in alta uniforme ed i civili in corrispondente abito da sera. Ancora oggi lo ha ben presente alla mente anche un ex alto ufficiale di marina che era allora un giovanissimo Sottotenente di vascello. In quella occasione venne anche rievocato, da chi ne era stato testimone indiretto, il tragico episodio dell’affondamento della corazzata Roma avvenuto nelle acque delle Baleari ad opera dei tedeschi dopo l’armistizio dell’ 8 Settembre 1943.
Purtroppo tra gli eventi tragici debbo a mia volta ricordarne uno: la scomparsa in mare dell’Ammiraglio Calamai che , se non ricordo male proprio per la suddetta visita, avevo appena conosciuto e che, timonando una barca a vela della nostra Marina, venne travolto dalle onde al largo del Golfo del Leone. Egli era fratello del comandante del transatlantico Andrea Doria naufragato al largo delle coste americane.
Ci furono in seguito altre presenze di unità della nostra marina militare tra cui, tanto per fare un esempio, una esercitazione di scuola-comando per capitani di corvetta ed una sosta della nave-scuola per cadetti dell’Accademia di Livorno Corsaro II , al comando del famoso comandante Straulino, che si recava negli Stati Uniti per partecipare ad una importante gara velica internazionale.
Per quanto concerne la situazione politica va ricordato che si era allora in pieno regime franchista e che non era allora tollerato l’uso del catalano, lingua che però era parlata anche nelle famiglie private bene dove si guardava anche con interesse ai primi sviluppi delle istituzioni europeistiche. Un esponente della nobiltà barcellonese era anzi diventato il punto di riferimento di alcuni giovani di conosciute famiglie che in una occasione commemorarono non ricordo ora quale ricorrenza – forse i trattati di Roma – cosa che per il suo simbolismo non piacque all’allora Gobernador Civil che però non ritenne opportuno andare al di là di un avvertimento dato alle famiglie dei giovani in questione. Ma la ruota della storia nel frattempo si era mossa. Per effetto di un cambiamento. dei componenti del governo spagnuolo era diventato ministro del commercio estero un cattolico più aperto alle nuove esigenze politiche ed economiche, Ullastres. Tra le sue prime iniziative vi fu quella di fissare il cambio ufficiale della peseta su valori pressoché pari al cambio nero così ottenendo il risultato che le transazioni valutarie avvenissero presso gli sportelli bancari con tutto vantaggio per la bilancia valutaria del paese. L’anno successivo fu il nuovo Gobernador Civil a presenziare la celebrazione europeista.
Mi diverte qui ricordare che lo stesso Ullastres impose ai funzionari ed agli uffici pubblici di iniziare il lavoro alle nove di mattina [ a Madrid le dieci erano ancora presto ! ] Si meritò l’epiteto di “ horrible hombre de las nueve “ parafrasando l’epiteto dell’orribile uomo delle nevi.
EPISODI DI PRATICA CONSOLARE
Secondo la prassi allora in uso ( siamo nel 1957 ) la prima sede estera di un giovane diplomatico era solitamente un incarico presso un Consolato. A me toccò essere Vice Console nel Consolato Generale di Barcellona. La Spagna di allora – in pieno regime franchista – era caratterizzata da una occhiuta chiusura verso l’esterno anche per quanto si riferiva al mercato della valuta. Ogni transazione in valuta era affidata al mercato ufficiale e ad operazioni burocraticamente difficili. Ma i turisti italiani amavano visitare quel Paese, affascinati anche dalle corride. Accadeva però di frequente che essi, recando nelle loro tasche tutto il peculio di cui disponevano, se lo facessero rubare durante lo spettacolo della corrida. Così il lunedì mattina venivano a piangere in Consolato per trovare rimedio alla loro improvvisa indigenza aggravata dal fatto di non potersi fare arrivare denaro dall’Italia. Per aggirare questa difficoltà mi ero accordato con il titolare di una agenzia di viaggio italo-spagnola pregandola di rilasciare, dopo mio accertamento della buona fede e della solvibilità del turista in questione, un voucher che egli si impegnava di rimborsare in Italia alla sede italiana di quella agenzia.
Si iscrive in questo quadro un gustoso episodio. Un lunedì mattina, come da copione, mi si presenta una ragazzotta di una trentina d’anni di età, che mi chiede aiuto per essere stata derubata. Dopo essermi accertato dell’identità e della regolarità del visto sul passaporto in suo possesso le chiedo di dirmi se disponesse di denaro in Italia e quale attività svolgesse. Mi esibisce prontamente un libretto di risparmio al portatore con una somma di qualche rilevanza e poi mi dice con la massima spontaneità e naturalezza : “ Faccio la vita “. Credendo di non avere ben compreso mi faccio meglio spiegare ed essa di nuovo mi chiarisce la sua professione. A quell’epoca l’esercizio della prostituzione era severamente repressa dalle autorità spagnole. Dopo essermi accertato quale fosse la sua posizione in Italia dove da poco era entrata in vigore la ben nota Legge Merlin, mi assicurò che il suo modo di agire in nulla contrastava con la nuova legge dal momento che essa esercitava a casa sua e che dunque nulla le poteva essere addebitato. Pur non essendo del tutto persuaso da questa sua interpretazione, ritenni opportuno – ad evitare che essa si guadagnasse soldi nelle strade di Barcellona creando ulteriori complicazioni – le spiegai il meccanismo del voucher aggiungendo però che se entro 15 giorni non avessi ricevuto conferma del saldo del debito le avrei mandato a casa sua i carabinieri! Nessun rimborso fu mai più sollecito del suo.
Di tutt’altro genere un episodio che ricordo con qualche commozione.
Un nostro connazionale aveva creato da alcuni anni una fabbrichetta di pasta, avvalendosi per l’acqua necessaria alla lavorazione di un piccolo fiumicello di cui egli sfruttava il corso. Per sua sfortuna, ad un certo momento un imprenditore spagnolo impiantò una conceria sullo stesso corso d’acqua ma a monte del pastificio italiano. Questi dovette chiudere perché le acque si inquinarono per i liquami della conceria. Il nostro povero connazionale ricorse al nostro Consolato Generale per aiuto. La sola cosa che potemmo fare fu quella di consigliargli un buon avvocato per cercare di ottenere qualche risarcimento. Continuammo poi – e questo era il mio compito – a seguire la vicenda che però sul piano industriale era ovviamente irrimediabilmente compromessa. In concreto poco o nulla potevamo fare tranne dargli qualche conforto morale. Ebbene, dopo qualche tempo,quando la causa si era ormai chiusa con poco vantaggio per il nostro, mi accadde di incontrare per strada il nostro poveretto. Vedendomi attraversò la strada per venire ad abbracciarmi “per tutto quello che avevo fatto per lui” ! Mi vergognai un poco ma mi commossi….
“DECIFRI ELLA STESSA”
Nella mia lunga carriera diplomatica mi è capitato una sola volta di veder arrivare un telegramma con la dicitura “Decifri Ella stessa” ossia quella di massima riservatezza essendo il messaggio destinato, come ben si comprende, ai soli occhi dell’Ambasciatore. Mi è capitato all’Ambasciata a Washington quando era Ambasciatore Manlio Brosio, un finissimo ed intelligentissimo gentiluomo piemontese prestato alla diplomazia italiana negli anni del dopoguerra, in riconoscimento dei suoi meriti politici quando era rappresentante del Partito Liberale in seno al CLN. Analogo riconoscimento era stato tributato anche ad altri esponenti politici del periodo della Resistenza (Tarchiani, Fenoaltea, Arpesani, Martini, Reale e più tardi Saragat ).
In quella circostanza – mi pare nell’anno 1960 o 1961 - io ero un giovane Terzo Segretario ed un bel sabato, giornata di semi riposo, ero di turno alla Cifra. Si trattava di solito di un noioso trascorrere di ore senza eventi che uscissero dalla routine della lettura dei telegrammi in arrivo per lo più di moderato interesse, di attivarsi affinché qualche telegramma in partenza venisse inoltrato con sollecitudine, di esser punto di riferimento per comunicazioni dal nostro Ministero degli Esteri, od infine di provvedere alla periodica sostituzione delle chiavi di cifratura allora in uso ( ve ne erano di diverso tipo e complicazione ). Invece quel giorno accadde un fatto insolito e per me unico nella mia vita diplomatica : era giunto un telegramma con la mitica dicitura “ Decifri Ella stessa “, ossia proprio il messaggio che avrebbe dovuto essere decifrato e visto dal solo Capo Missione. Incaricai il carabiniere addetto alla cifra di sospendere subito la decifratura e mi recai dall’Ambasciatore per chiedere istruzioni. Brosio molto signorilmente mi diede istruzioni di far continuare la decifratura del messaggio in questione al carabiniere di turno, con l’avvertenza peraltro di ritirare io stesso la striscia ( allora vi erano delle macchinette chiamata Hagelin che cifravano e decifravano i messaggi attraverso dei rotori, utilizzando all’uopo apposite strisce di carta ) e di portargliela non appena completato il lavoro di decifratura. L’Ambasciatore attendeva nel suo studio con l’abituale plaid sulle sue ginocchia e l’immancabile cagnolino Badino ai suoi piedi. Il messaggio in questione comunicava a Brosio che il governo aveva deciso di presentare la sua candidatura a Segretario Generale della NATO. Nel consegnargli il testo del messaggio non ho potuto esimermi dal fargli le mie davvero sincere congratulazioni. Invece, con mio stupore, Brosio fu preso da grande furore dicendo “ questo non me le dovevano fare, mi hanno messo in un grande imbarazzo! “ ed altre simili espressioni. Mi sono perciò ritirato in buon ordine senza capire e senza cercare di capire il perché di tanta rabbia.
La spiegazione mi è venuta più tardi. Era accaduto che Brosio, appena rientrato da un giro di contatti in vari Stati dell’Unione, non essendo al corrente degli intendimenti del governo, aveva categoricamente smentito questa notizia che invece era già pervenuta come voce in ambienti giornalistici americani, che lo avevano interpellato in proposito. Brosio temeva perciò di essere preso per bugiardo, cosa per lui oltre modo offensiva. La sua candidatura non ebbe quella volta seguito essendo stato nominato Segretario Generale della NATO l’olandese Stikker. Ma credo che la mossa di presentare quasi all’ultimo momento Brosio come candidato fosse in realtà dovuta al desiderio di predisporre se non altro un precedente per il turno successivo. Brosio sostituì infatti Stikker quando questi dovette lasciare l’incarico per motivi di salute ( morì poco tempo dopo ). Nel frattempo Brosio, dopo Washington, venne inviato a Parigi, così completando un prestigioso susseguirsi di incarichi ambasciatoriali che lo hanno visto nelle quattro più importanti sedi diplomatiche italiane del momento :Londra, Mosca, Washington e Parigi. Da notare che Brosio, a differenza di altri suoi colleghi di nomina politica ( ad esempio Arpesani e Fenoaltea ), non volle mai entrare a far parte dei ruoli effettivi del Ministero degli Esteri.
Per quanto mi concerne rividi Brosio altre due volte. La prima fu a Lisbona ( ero allora il numero due dell’Ambasciata ) dove Brosio, divenuto Segretario Generale della Nato, era venuto per la tradizionale visita di cortesia dei Segretari Generali alle capitali dei Paesi membri dell’Alleanza. Aveva molto gentilmente accettato di venire a cena a casa mia come suo vecchio collaboratore. Nel corso delle nostre chiacchierate sui tempi di Washington gli rievocai l’episodio che lui ben ricordava e che commentò con un benevolo ( oppure malizioso ? ) sorrisetto.
La seconda volta fu a Mosca. Brosio allora era già a riposo ma desiderava ritornare nella capitale sovietica come privato cittadino per rivedere la sede della sua davvero cruciale missione diplomatica in URSS, svoltasi nei difficili anni del primo dopoguerra dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche regolari italo-sovietiche. Prima di lui era stato inviato a Mosca, catapultatovi da Kabul dove era da qualche anno in semi punizione da parte del regime fascista, l’Ambasciatore Quaroni che inviò il suo primo telegramma di assunzione redatto sulla carta dell’albergo, ove era stata frettolosamente situata la sede provvisoria della nostra rappresentanza diplomatica poiché non ci era stata ancora restituita la nostra bella e storica sede di Uliça Vesnina, Dom piat. La riebbe proprio Brosio. Soddisfare il suo desiderio non fu però facile perché il suo nome figurava ancora, in quanto esponente di spicco dell’Alleanza Atlantica, tra le persone cui non era lecito rilasciare visti di ingresso in URSS. L’ostacolo fu però superato dall’Ambasciatore Maccotta ( era allora lui il Capo Missione ), rivolgendosi al titolare del Dipartimento Europa Occidentale del MID, l’Ambasciatore Anatoly Adamishin ( qualche anno dopo lui stesso ambasciatore sovietico in Italia ), un buon amico nostro e persona dotata di sano realismo. Egli si adoperò per soddisfare il desiderio di Brosio che poté così rivedere e soggiornare ancora una volta nella nostra sede diplomatica. Egli ne fu molto contento e ce ne fu veramente grato. Anche in quell’occasione ebbi a sperimentare ancora una volta la sua intelligenza e gentilezza d’animo.
Questo accadeva non molto tempo prima della sua scomparsa, che ha lasciato in molti di noi giovani che ebbero il privilegio di essergli vicini un rimpianto ed un affettuoso ricordo..
EQUIVOCI DIPLOMATICI
Durante la guerra condotta da vari movimenti indipendentisti angolani ai tempi in cui l’Angola era considerata dal governo di Lisbona “ Territorio d’Oltremare “- una formula questa che equivaleva a quella di colonia, terminologia non politicamente corretta ( e questo temine era stato usato anche dalla Francia nel riferirsi in particolare a Algeria, Marocco e Tunisia ) - ve ne era uno che si chiamava “ UNITA “ ( sigla che significava Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola ). Esso si differenziava soprattutto dal cosiddetto FLNA ( Fronte per la Liberazione Nazionale dell’Angola ) per il fatto di non essere, come quest’ultimo, di ispirazione molto sinistrorsa ( comunista, secondo l’etichettatura del governo portoghese ).
Orbene, un bel giorno un collega di un’altra Ambasciata mi segnala che non ricordo quale quotidiano portoghese aveva scritto che il quotidiano del partito comunista italiano aveva preso una posizione critica del FLNA. Se vera la cosa sarebbe stata clamorosa. Purtroppo per il mio collega non si trattava di un fatto clamoroso bensì di un abbaglio clamoroso : quanto scritto dal quotidiano portoghese non si riferiva infatti a L’UNITA’ ma all’UNITA : cosa può fare un accento in più o in meno!
COOPERAZIONE POLITICA ITALO-FRANCESE: UN ESPERIMENTO INEDITO
Nel 1974 era in pieno sviluppo una crisi con Malta perché l’allora Presidente Dom Mintoff aveva imposto la chiusura della base NATO nell’isola e voleva che venisse internazionalmente riconosciuta e garantita la neutralità della Repubblica maltese.
Ne nacque un grosso problema politico perché nel neutralismo mintoffiano si intravedeva il pericolo tutt’altro che teorico della possibilità che vi venisse installata una base navale sovietica. Il problema divenne prioritario anche nel quadro della cooperazione politica europea.
Ebbero così inizio lunghi e difficili negoziati intesi a chiarire i termini della neutralità pensata da Dom Mintoff. Questa prevedeva una garanzia da parte di due paesi europei (Italia e Francia) e due paesi nordafricani (Tunisia e Libia). Inoltre il Presidente maltese esigeva un consistente aiuto economico per far fronte…ai disoccupati della base NATO (quella da lui forzata a chiudere)!
In sede di cooperazione politica europea fu deciso che i contatti diplomatici con Malta fossero mantenuti da Italia e Francia. Accadde così che i due poveri Ambasciatori fossero continuamente convocati anche ad ore e in giorni improbabili per subirsi le tirate dell’estroso Dom Mintoff.
Nelle due capitali interessate, Roma e Parigi, si instaurò quindi un sistema di collaborazione intensa che non credo avesse allora veri e propri precedenti nella pratica diplomatica.
Fu infatti deciso che i due uffici territorialmente competenti lavorassero insieme nella redazione dei documenti da presentare al governo maltese. Così il mio collega francese Jacques Blot (anni dopo divenuto Ambasciatore di Francia a Roma) ed io ci sentivamo quasi quotidianamente per telefono ed anche in persona recandoci vicendevolmente a Roma e a Parigi. Insieme mettevamo a punto i documenti che venivano poi approvati in sede di cooperazione politica. Infatti non esistevano ancora né i telefonini né, soprattutto, internet!
PORTOGALLO 1968 – 1974
Sono arrivato a Lisbona nel luglio 1968, come numero due della nostra Rappresentanza diplomatica allora retta dall’Ambasciatore - ed alcuni anni prima senatore democristiano - Cerulli Irelli, cioè l’anno delle grandi contestazioni studentesche in Germania, Francia ed Italia: praticamente l’anno che segnò una profonda trasformazione generazionale ossia il passaggio da quella cui io ed i miei coetanei apparteniamo a quella dei nostri figli maggiori non a caso ora definiti, quelli più trasgressivi e polemici di quei turbolenti anni, “sessantottini”. Vale a dire gli anni del mito Che Guevara, di Rudy Dutschke e Cohn-Bendit e della lotta alla “meritocrazia” in nome di una asserita esigenza di un ugualitarismo di stampo proletario. Furono gli anni che in Italia si caratterizzarono nelle Università per l’affermazione del diritto di concludere le prove di esame con il voto del “18 politico” e degli “esami di gruppo” (nessuno doveva essere bocciato ed il voto non doveva essere individuale ma collettivo) e per le vivaci e non sempre pacifiche (lo stesso Pasolini ebbe a criticarle) contestazioni contro i docenti e contro la polizia considerata espressione di stampo fascista e perciò anti-proletaria. Furono gli anni in cui la lotta di quei giovani si traduceva in una continua contrapposizione spesso violenta tra i giovani in lotta ed in asserita difesa di un non meglio specificato “diritto democratico” da un lato e gli esponenti delle frange post-fasciste dall’altro. Gli esponenti delle varie sinistre sostenevano che era un diritto di tutti quello di accedere comunque agli studi superiori. Ma mi pare che, a ben guardare, si trattava invece, forse inconsciamente da parte di quegli studenti, della più prosaica affermazione di un preteso esistente diritto ad ottenere comunque il sospirato diploma di laurea allora ancora evidentemente concepito come importante ascensore sociale.
Ma intanto il mondo si andava trasformando con progressi tecnologici di grande portata: i sovietici avevano già lanciato nello spazio la cagnetta Laika e poi gli astronauti Valentina Tereskova e Gagarin: ma fu l’anno 1979 che segnò la svolta epocale per la storia dell’uomo: lo sbarco sulla Luna!
Di tutto questo fermento politico e scientifico a Lisbona – che pur non ignorava ed anzi guardava con preoccupazione gli sviluppi della guerra fredda anche per le sue ricadute sullo scenario africano con particolare riguardo ai suoi riflessi sul colonialismo – non vi era allora qualche vero riflesso apparente (un qualche fermento era invece riscontrabile ad Oporto malgrado l’occhiuta sorveglianza della polizia politica: l’odiata PIDE).
Il Portogallo, insomma, sembrava essere tagliato fuori dal resto d’Europa sia perché la Spagna di Franco aveva costituito e ancora costituiva un grosso cuscinetto in particolare verso la Francia, sia – e soprattutto – perché sul suo cielo continuava ad essere incombente la figura di Salazar: “O Doutor Salazar” come veniva comunemente chiamato l’uomo politico che ha caratterizzato per quasi 60 anni la vita politica iniziata negli anni Trenta con la proclamazione del “Estado Novo”. Non a caso furono gli anni in cui furoreggiava il mito di Amalia Rodrigues, la nota cantatrice di fado: la melanconica e spesso triste espressione della canzone popolare portoghese che non per nulla significa destino o fato.
Questi era un professore di economia, chiuso nelle sue stanze, quasi monastico nella sua vita privata, schivo dei contatti con la dirigenza politica e sociale del paese, ove non si faceva mai sentire né vedere pubblicamente, trincerato nell’ortodossia del pareggio di bilancio e, si potrebbe aggiungere parafrasando un noto momento politico italiano, del “piede di casa”. Egli venne chiamato a fare parte del governo per la prima volta nel 1928 in qualità di Ministro per le finanze per risanare il bilancio statale con severi tagli dopo i turbolenti avvenimenti politici scoppiati anche in Portogallo dopo la prima Guerra Mondiale. Successivamente, nel 1933 venne nominato Primo Ministro e da allora in poi rimase saldamente al potere propugnando la dottrina della lesina (la spatola per ripulire le pentole veniva chiamata significativamente “o Salazar”!) che da allora venne sempre considerata come punto di riferimento della sua azione politica durante i suoi quaranta anni di dominio della scena portoghese. Alieno dall’accettare per il suo Paese nuovi ruoli economici ed internazionali al di fuori di quelli derivanti dalla sua appartenenza all’Alleanza Atlantica (si dice che quando venne scoperto il petrolio nelle colonie portoghesi egli abbia esclamato: “Ci mancava anche questa!”) si è sempre mantenuto lontano dai riflettori della vita politica sulla quale peraltro esercitava il proprio ferreo controllo.
Quando giunsi a Lisbona esisteva certo un Presidente della Repubblica (lo scialbo ma fedele uomo di destra Ammiraglio Americo Thomas) ma egli non era che l’aspetto esterno ed apparente del potere, tanto che una volta mi venne in mente di definire la repubblica portoghese con un paradosso-ossimoro ossia una sorta di diarchia monarchica (dove il vero monarca era però Salazar).
L’unico fremente ed energico atto clamoroso conosciuto di Salazar fu quello di avere ordinato alle Forze Armate, di fronte all’insorgere della rivolta in Angola: “Subito e con forza in Angola!” Ma seguirono poi le rivolte in Mozambico ed in Guinea, le altre due più importanti colonie africane del Portogallo.
Nel passato vi era stato, è vero, qualche episodio significativo di un’esistente opposizione al salazarismo: fu clamoroso nel 1961 il sequestro di una nave da crociera da parte di Henrique Galvao, seguace dell’esponente politico Humberto Delgado, un ex ufficiale appartenente al gruppo che attuò la rivoluzione del 1926 e che, dopo una brillante carriera nell’ambito salazariano, era passato all’opposizione tanto che nel 1958 si presentò alle elezioni presidenziali ottenendo un certo successo ma senza conseguire la vittoria elettorale. Così come, a seguito di qualche dimostrazione, era stato arrestato dalla polizia politica anche l’avvocato socialista Mario Soares ed, oltre a vari esponenti dell’estrema sinistra, era stato costretto a rifugiarsi all’estero il comunista Alvaro Cunhal. Vi erano così nelle carceri vari prigionieri politici.
Ma la vita quotidiana dei portoghesi scorreva senza apprezzabili sussulti a non essere per l’impatto – anche nell’ambito delle famiglie più benestanti (a causa del lungo servizio militare obbligatorio: quattro anni per i militari di leva o di complemento ed otto di servizio in zona di guerra per gli ufficiali di carriera) – dell’inesauribile e sfibrante guerra coloniale e delle vittime che essa causava e di cui non si dava notizia ma che erano ben note alla popolazione.
Nel quadro della politica interna portoghese avevano naturalmente il dovuto speciale risalto la guerra in corso in Angola ed in Mozambico ma direi soprattutto, per i suoi peculiari risvolti politici della madrepatria, quella in atto nella Guinea con capitale Bissau (da non confondere con l’altra Guinea, quella con capitale Conakry allora guidata da Sekou Toure) guerra condotta con grande energia dal PAIGC, ove la lettera G stava per Guinea e la lettera C sta per Capo Verde. Ma non per questo era da sottovalutare l’impatto dell’endemica, e non certo priva di pericolosità, guerriglia in atto in Angola (in questa colonia erano attivi ben tre movimenti: FNLA, MPLA, UNITA in costante rivalità tra loro) ed in Mozambico (FRELIMO). Le vicende delle colonie asiatiche (Goa, Macao e Timor Est) apparivano invece lontane anche se soprattutto Goa – dove i portoghesi si erano stabiliti da quasi 500 anni e che nel frattempo era stata presa dall’India – costituiva per il governo una ferita psicologica non sanata e motivo di costante preoccupazione per i difficili rapporti con il governo di New Delhi. Non era senza significato il fatto che nei contatti con il mondo diplomatico fosse sempre tenuto in posizione di grande visibilità nel servizio stampa del Ministero degli esteri portoghese (chiamato “Palacio das Necesidades” dal nome dell’antico convento ove era situato) un funzionario goano di pelle scura. Le isole di Madera e l’arcipelago delle Azzorre erano territori della madrepatria ed estranee alle vicende coloniali, non così come detto sopra per le isole di Capo Verde.
Per completare il quadro politico-militare non va peraltro dimenticato – come già sopra accennato – che il Portogallo era allora come oggi membro della NATO e che questa, con particolare riferimento agli Stati Uniti, aveva delle proprie basi tanto sul territorio continentale che nell’arcipelago delle Azzorre. Peraltro, se l’appartenenza del Portogallo all’Alleanza Atlantica ed alla NATO era senz’altro motivo di orgoglio e pilastro della politica estera di quel Paese, era anche motivo di frustrazione in ispecie negli ambienti militari perché gli altri alleati, ed in particolar modo i nordici, non perdevano occasione quasi in ogni consesso di denunciare il colonialismo portoghese con grave disappunto proprio dei militari che di tale colonialismo si trovavano ad essere al tempo stesso attori e sempre più forzate vittime. Quest’ultimo aspetto psicologico venne a giuocare in prosieguo di tempo un ruolo determinante per i futuri sviluppi politici del Paese, come si vedrà più tardi.
La società “bene”, sia quella lisboeta che quella di Oporto, in buona parte titolare di grandi proprietà terriere e/o con in pugno le leve industriali e finanziarie (le maggiori banche erano di proprietà o largamente controllate da alcune influenti famiglie di Lisbona o di Oporto), pareva essere adagiata su moduli di vita ormai scomparsi nel resto d’Europa, mentre il popolo minuto, tra di esso non era piccola la parte di quello legato alla pesca o al piccolo commercio, si lasciava vivere senza guardare al futuro: ma non per questo non era angosciata dalle vicende di quello che veniva ufficialmente chiamato “Ultramar” a causa per l’appunto del tributo di dolore che le sue vicende comportavano di per sé (vi era uno stillicidio di perdite tra morti e feriti) ma anche perché il pluriennale servizio militare obbligatorio allontanava dalle famiglie i figli o i mariti con pesanti risvolti per le economie domestiche.
Anche l’estate di quell’anno, il 1968, si presentava con le stesse sonnolenti caratteristiche di quelle precedenti sennonché, all’improvviso, accadde un fatto nuovo: nel tardo agosto o ai primi di settembre si diffuse la notizia che Salazar era stato ricoverato all’ospedale per un trauma cranico a seguito di un banale incidente occorsogli mentre se ne stava sdraiato su una poltroncina pieghevole nella sua residenza estiva di Estoril (come molti sanno, località in riva al mare a pochi chilometri dalla capitale). Si trattava però di un ematoma subdurale che richiese un non facile e delicato intervento chirurgico, peraltro ben riuscito che comportava comunque una prolungata degenza. Qualche settimana dopo, mentre già si annunciava il rientro a casa di Salazar, si seppe però che l’illustre vegliardo aveva avuto un ictus o qualcosa di simile che lo aveva praticamente paralizzato. Il governo pensò allora di rivolgersi a Marcelo Caetano (noto docente universitario ed in passato apprezzato politico della destra nazionalista moderata) per assicurare l’interim in attesa di un ristabilimento del degente, ma in realtà per non affrontare subito il delicato problema politico della successione. La destra più reazionaria (che aveva come esponente governativo il potente Ministro do Ultramar) era infatti in allerta per il timore di una qualche deriva più aperturista soprattutto in tema di politica coloniale. Scorrevano intanto i mesi senza che il paziente desse segni di ripresa.
Si apersero così le faide interne al partito perché i meno oltranzisti ne approfittarono per cercare di sbarazzarsi dell’ingombrante ed ora non più ipotizzabile dominanza salazariana ed, al tempo stesso, di emarginare la destra dura e pura. Per fare ciò si ricorse ad un espediente crudele: cogliendo l’occasione del Natale (1969) venne fatto leggere a Salazar un messaggio augurale di circostanza. Salazar apparve sullo schermo televisivo come un vecchio che leggeva a stento aiutandosi con un cursore il testo scritto del messaggio. Fu la definitiva cancellazione politica di Salazar al quale però sino alla sua morte, sopravvenuta ai primi mesi dell’anno successivo, venne accuratamente nascosto (con un sussulto di pietà e riguardo veniva fatta un’accurata cernita dei giornali che gli venivano dati da leggere ed era stato proibito alla sua fedele governante di svelare alcunché al malato) che egli nel frattempo era stato soppiantato da Caetano. I funerali, celebrati in forma solenne, colpirono tutti noi osservatori perché l’affluenza della folla spontaneamente accorsa per rendere omaggio al defunto fu veramente imponente.
La transizione alla nuova fase della vita politica del paese si era intanto manifestata lasciando qualche margine di speranza anche ai fautori di una impronta meno rigida del passato (si disse che forse si passava dalla “ditta-dura” alla “ditta –molle” e Marcelo Caetano venne raffigurato come un vigile che dirigeva il traffico con le mani che indicavano una direzione mentre con gli occhi guardava dall’altra) sia in tema di allentamento della censura sui giornali sia in quello della condotta in tema di guerra coloniale. Negli ambienti più vicini a quelli diplomatici cominciarono così a circolare in maniera semi-pubblica dei “quaderni“ su tematiche varie che citavano anche fonti estere riportandone anche articoli. Ebbero notorietà tra noi giovani diplomatici due esponenti destinati ad avere in seguito rilevanza politica: il giovane Francisco de Assis Balsemao (appartenente alle famiglie “bene” di Lisbona) e il futuro deputato Sa Carneiro, sentimentalmente legato ad una giovane svedese facente parte di una grande famiglia portoghese (era lei l’editrice di quei quaderni). Ma diede adito a speranze soprattutto il fatto che di lì a poco lo stesso Caetano ordinò il rilascio di Mario Soares che così poté riallacciare i contatti con gli ambienti internazionali. Tra l’altro io stesso ebbi occasione di avere con lui uno o due colloqui nella nostra Ambasciata che, dopo l’andata in pensione di Cerulli Irelli, nel 1970 era stata affidata all’Ambasciatore Messeri, anche lui ex senatore democristiano.
A differenza di Cerulli Irelli, un pacato signore di un altro secolo amante della musica e molto amato dalla società portoghese, Messeri era un sanguigno siculo irruento e convinto assertore dei buoni diritti della destra più conservatrice e pertanto strenuo difensore del colonialismo portoghese anche, nella sua visione, quale baluardo contro i pericoli del comunismo. Celebri nel nostro Ministero degli Esteri alcuni suoi rapporti con immaginifiche e colorite espressioni critiche ad esempio nei confronti di taluni esponenti africani, ma non solo!
La ruota della storia politica del paese aveva nel frattempo cominciato a muoversi con un nuovo ritmo, soprattutto per le ripercussioni sulla politica interna portoghese provocate dalle vicende belliche in Guinea ove il Generale Spinola esercitava da qualche anno le funzioni di Governatore Militare. Per completare il quadro di riferimento va ricordato che in quegli anni era ancora vivo sull’orizzonte politico africano il ricordo della rivolta dei Mau Mau, dei sanguinosi risvolti della da poco sopita guerra del Congo e del conflitto ancora in atto in Nigeria che aveva dato luogo alla cosiddetta guerra del Biafra, a seguito della secessione di quella regione dalla Nigeria proclamata da Ujuku, quest’ultimo segretamente, ma non tanto, sostenuto dal governo portoghese. Viene qui a proposito ricordare il fatto che, essendo stati sequestrati dai ribelli secessionisti alcuni tecnici dell’ENI e non essendo stati coronati sino ad allora i tentativi esperiti dal nostro governo di ottenerne la liberazione, l’Italia era allora molto critica nei confronti del governo portoghese. Venne alfine deciso di esperire un tentativo anche attraverso la nostra Ambasciata a Lisbona: non fu forse solo una coincidenza che poco dopo la sollecitazione rivolta al Ministero degli Esteri portoghese i tecnici italiani vennero liberati. Un nostro funzionario diplomatico poté riportarli in Italia ed il nostro governo ritenne opportuno ringraziare quello portoghese tramite la nostra Ambasciata.
È dunque su questa complessa tela di fondo che ha inizio l’azione politica di Marcelo Caetano, un personaggio per certi aspetti problematico che qualche commentatore, notando una certa ambiguità nella sua condotta politica, ritrasse con arguzia non disgiunta da una certa dose di ironica speranza come quella più sopra descritta dell’ambivalente vigile urbano.
L’immagine giornalistica non appariva del tutto priva di fondamento perché qualche ventata di maggiore apertura nei commenti della stampa e di avvenimenti di interesse generale si era subito avvertita a seguito di un allentamento della censura. Ma parlare di Caetano come di uomo aperto a talune istanze liberali era certamente esagerato: più probabilmente si trattava dell’avvento di una classe dirigenziale più giovane e perciò più conscia che nel passato delle sempre maggiori implicazioni comportate dalla complessa e ognora più interdipendente realtà politica internazionale. Non va dimenticato che il Portogallo quale membro dell’Alleanza Atlantica e strategico alleato degli Stati Uniti - questi però non certo favorevoli alle istanze coloniali – aveva messo a disposizione importanti basi militari alle Azzorre riguardate da Lisbona come un vero e proprio “asset” della propria politica estera. Il governo portoghese non perdeva perciò occasione per sottolineare il proprio ruolo strategico in seno all’Alleanza Atlantica anche quale pedina di rilievo nel quadro della guerra fredda allora in atto tra paesi del mondo occidentale e paesi del blocco sovietico.
Ma, parafrasando il detto popolare spagnolo secondo cui “nella bocca chiusa non entrano le mosche”, proprio per questo mutato clima politico “le mosche”, ossia i crescenti segni di critica al governo, cominciarono a ronzare, soprattutto perché la condotta della guerra nelle maggiori provincie coloniali ed in particolare quella in Guinea non mostrava segni di miglioramento ed anzi soprattutto in Mozambico e per l’appunto in Guinea appariva sempre più una strada senza sbocco.
Un’inevitabile conseguenza di questo stato di cose fu che, asseritamente sotto l’egida del Generale Spinola, si cominciò a parlare dell’esigenza di affrontare il problema coloniale della Guinea non più o non soltanto in chiave di sforzo bellico ma anche attraverso una soluzione di carattere politico. Tesi questa riguardata con grande sospetto dalla destra oltranzista per nulla disposta a concessioni in tema di politica coloniale. In effetti in vari suoi discorsi ed interviste raccolte in un volume edito nel 1972 dalla Agencia Geral do Ultramar, egli propugnava una soluzione politica dei problemi coloniali portoghesi con la creazione di una sorta di comunità luso-afro-brasiliana.
La sviluppo di questo stato di cose si manifestò con la pubblicazione, sullo scorcio del 1973, di un libro a firma Spinola, ma probabilmente redatto a più mani ivi compresa si disse quella di Sa Carneiro, dal titolo certo altrettanto clamoroso quanto – nell’ottica di quei tempi – insolito : “O Portugal e o futuro”. Ne nacque – e non poteva non mancare di suscitarlo – un caso politico tanto più dirompente in quanto appunto il libro, subito sparito dalla circolazione perché richiestissimo, recava la firma del Generale Spinola, prestigioso esponente militare tra l’altro riguardato anche negli ambienti militari più giovani come una sorta di eroe per il modo come conduceva la guerra nella colonia di cui era il Governatore e che nel frattempo era stato richiamato in patria ove era stato accolto con grandi onori ma poi in pratica emarginato, così come venne anche emarginato il generale Costa Gomes ritenuto (non a torto) esponente di spicco dei militari di sinistra che già si facevano sentire. Ma a nessuno poteva sfuggire il significato politico sotteso dall’evento della pubblicazione del volume in questione.
Per appianare le cose si decise dunque – ma siamo già alla fine del 1973 – di fare un gesto di riconciliazione (la cosiddetta “manifestaçao de desagravo”): all’inizio del nuovo anno Spinola venne pubblicamente omaggiato in una sessione solenne del Parlamento ma comunque messo in disparte ed al di fuori della scena politica.
Siamo così arrivati all’ultimo atto della scena politica del Portogallo precedente alla cosiddetta “rivoluzione dei garofani”.
Prima di arrivare agli eventi del 24-25 aprile 1974 può essere però interessante citare un episodio, avulso dal panorama della vita politica nella madrepatria, ma significativo del clima esistente, non certo caratterizzato da un’aspettativa di quanto di lì a poco sarebbe avvenuto.
A Nampula, città mozambicana a qualche centinaio di kilometri al nord di Lourenço Marques (così si chiamava allora l’attuale capitale dello stato indipendente del Mozambico) vi era un gruppo di missionari italiani comboniani che era stato accusato di avere contatti ed addirittura appoggiato esponenti del FRELIMO. Ne era stata perciò decretata l’espulsione. L’accusa era senz’altro esagerata anche se era noto che i comboniani sostenevano una linea politica anticolonialistica pubblicando anche, nella rivista di quell’ordine, articoli di questo tenore.
Poiché il nostro Console Generale in quel momento era in congedo, l’ambasciatore Messeri ritenne opportuno inviarmi in Mozambico per prendere diretto contatto sia con il Governatore del Mozambico che con i sacerdoti in questione. Poiché agli aerei portoghesi non era consentito sorvolare l’Africa da Nord a Sud dovetti prendere la linea della TAP che, costeggiando la costa occidentale di quel continente, arrivava in Angola e di lì, attraverso quella che era allora la Rhodesia britannica, raggiungere il Mozambico. Per caso in quegli stessi giorni si trovava in viaggio sia in Angola che in Mozambico anche il Nunzio Apostolico accreditato presso il governo portoghese. Svolgemmo dunque, anche se separatamente, un’azione parallela. La sola cosa che ottenemmo dal Governatore, peraltro gentilissimo nei nostri confronti e comprensivo per le nostre richieste, fu però quella di ritardare un poco l’espulsione che avvenne, se ben ricordo, verso la fine di marzo. Per quanto mi concerne, poiché l’aereo di linea per Nampula partiva solo dopo due o tre giorni, il Governatore mi mise a disposizione un piccolo Cessna per andare a visitare nel frattempo i lavori allora in corso per la diga di Cabora Bassa. La diga doveva portare energia al Sud Africa mediante una linea elettrica, opera questa ufficialmente affidata ad un’impresa sudafricana ma alla quale partecipava anche un’impresa italiana. La diga in questione si trovava infatti grosso modo sulla rotta dell’aereo di linea: precisamente su un altopiano all’interno della cittadina portuale di Tete (uno dei più antichi insediamenti coloniali portoghesi in quella zona). Per ritornare a Tete, a causa di avverse condizioni atmosferiche sopravvenute, non fu però poi più possibile utilizzare l’aeroporto di Cabora Bassa e fui accompagnato in jeep ad un altro aeroporto cosicché mi fu dato di attraversare le linee ed i villaggi fortificati portoghesi in quella zona dove operava il FRELIMO. Fu un’esperienza molto interessante sia per l’aspetto militare che per il selvaggio ambiente naturale africano caratterizzato da alberi imponenti come il baobab, ma che appunto dimostra come nulla lasciasse presagire che di lì a pochi giorni sarebbe scoppiata a Lisbona la “rivoluzione dei garofani” con il conseguente ma successivo abbandono dei territori dell’Ultramar e l’afflusso in patria dei “retornados”, i civili portoghesi che abbandonarono le ex colonie. A Nampula trovai i nostri missionari in stato di grande preoccupazione ma rassegnati all’imminente partenza che come ho già detto avvenne poco dopo e senza problemi.
Ritornato a Lisbona ripresi il mio abituale ritmo di lavoro pur sapendo che dopo qualche settimana sarei rientrato al Ministero: cominciai tra l’altro ad effettuare le consuetudinarie visite di congedo e tra queste, con mia meraviglia ma anche con indubbia soddisfazione, mi fu fissata una visita al Presidente della Repubblica (protocollo abituale per la fine missione di Ambasciatori ma del tutto inusuale – e perciò da me assai apprezzata – per un numero due delle Rappresentanza quale io ero). La visita non ebbe però luogo perché...era stata fissata per gli ultimi giorni di aprile!
PORTOGALLO 25 APRILE 1974
La giornata del 24 Aprile del 1974 scorreva a Lisbona con il ritmo abituale: le automobili passavano su e giù per le principali arterie della città affollando in particolare l’ampio viale dell’ Avenida da Liberdade e si incrociavano sulla Piazza Marques de Pombal, ai piedi degli ordinati giardini del Parco Eduardo VII che le fanno da sfondo per chi viene dalla Praça dos Restauradores e dal Rossio, giardini questi delimitati nella parte alta dall’edificio del Comando generale militare e da due ampi viali laterali, quello di sinistra dominato poco più oltre dall’Hotel Ritz e da alcune villette in una delle quali allora aveva sede la “Radio Clube de Portugal”. Sulla destra vi è invece l’Avenida Antonio Augusto de Aguiar, allora sede di un importante posto di polizia situato alcune centinaia di metri più in basso dell’ampio e moderno appartamento ove alloggiavo e che era dotato anche di un ampio garage con uscita sulla strada parallela posta alle spalle dell’ingresso della casa. Lo presiedeva il solerte portiere “Senhor Ignacio”. Benché io avessi in pratica già “staccato” dal lavoro in Ambasciata dal momento che dovevo rientrare al Ministero degli Esteri a Roma con partenza prevista il 7 Maggio, quella sera partecipai con mia moglie al ricevimento di saluto offerto dall’Ambasciatore tedesco in occasione della sua partenza. Erano presenti molte delle più importanti personalità del governo portoghese. L’atmosfera era quella di tutte le analoghe occasioni: saluti, strette di mano, sorrisi, battutine ma anche rapidi scambi di opinioni sulla situazione politica ed economica e, naturalmente, sulla guerra in corso in Angola, Mozambico, ma soprattutto in Guinea. A tal riguardo molto si parlava allora negli ambienti diplomatici della posizione del Generale Spinola e, come ho detto, della fronda che egli aveva apertamente instaurato nei confronti del governo di Marcelo Caetano pubblicando il suo libro “O Portugal e o futuro”.
Era con questi precedenti – e su di un episodio accaduto poche settimane prima – che giravano i commenti e le supposizioni di cui si discuteva in casa dell’Ambasciatore tedesco. Era accaduto infatti che il 15 marzo era giunta alle porte di Lisbona, in prossimità dell’aeroporto, una piccola colonna di camion militari proveniente dalla città di Caldas da Rainha (situata ad una settantina di chilometri a nord della capitale) con intenti evidentemente golpisti. La piccola colonna fu subito fermata dai carri armati inviati a contrastarla ed il suo comandante, anche lui considerato ufficiale valoroso, fu naturalmente arrestato ed inviato in fortezza. L’episodio apparve ovviamente assai strano, sebbene si avvertisse nell’aria che qualche cosa potesse prima o poi intervenire a mutare l’apparente tranquillo scorrere dei giorni. Ma che cosa e in che direzione ciò sarebbe potuto accadere era oggetto di speculazioni le più diverse. Certo nessuno sospettava quanto sarebbe accaduto invece di lì a poche ore. Alcuni di noi diplomatici più giovani erano in contatto anche con circoli politici facenti capo soprattutto a Balsemão e Sà Carneiro notoriamente critici del governo, che però poco interveniva con questa fronda allora sostanzialmente salottiera. Eravamo perciò al corrente che nell’estate del 1973 vi era stata una riunione di ufficiali di grado intermedio che aveva prodotto un documento di protesta detto “Manifesto dos Capitoes”. Ma lo si considerava piuttosto come una presa di posizione di natura per così dire corporativa in quanto sembrava diretto soprattutto – ed in realtà ne aveva le apparenze – a manifestare disappunto per i privilegi che venivano accordati agli ufficiali di complemento che avessero accettato di tornare in servizio e rendersi così disponibili ad andare a combattere in Guinea. Se dunque ci era noto il serpeggiare di malumori nei ranghi delle Forze Armate, non ci era però noto che quella riunione aveva fornito l’occasione ai “capitani” di rendersi conto che al di là degli aspetti corporativi esisteva tra di loro anche una comunanza di idee sulla necessità di porre termine al conflitto in atto nei “territori d’Oltremare” ed anzi porre termine anche al governo di Marcelo Caetano. Si seppe dopo che era così nato il “Movimento delle Forze Armate” che avrebbe di lì a pochi mesi preso la direzione del Paese.
Per conto mio la sera del 14 marzo avevo altresì osservato per caso strani movimenti nei pressi di una caserma situata vicino allo splendido settecentesco palazzo del Conde de Pombeiro, sede dell’Ambasciata d’Italia. I vari membri del governo presenti all’Ambasciata tedesca avevano l’aria di prendersi giuoco di questi nostri conversari diplomatici asserendo che la situazione era tranquilla e che tutto era sotto controllo altrimenti essi non sarebbero stati così sereni. Essi erano certo al corrente di quanto si diceva in giro ma si sentivano forse più forti di quanto non fossero e certo sottovalutavano gli umori dei militari dei gradi medi ed inferiori. Volevano altresì diffondere l’impressione che il problema Guinea (allora di gran lunga il più risentito dalla popolazione e dai militari) sarebbe stato risolto in maniera soddisfacente, forse anche per via politica come auspicava il Generale Spinola in contrasto con le tesi degli ambienti più rigidamente nazionalisti decisi invece a risolverlo con la forza. Le sinistre estreme, apertamente ostili al governo ed alla politica coloniale, non avevano allora possibilità di esprimersi essendo bandite dalla vita pubblica: il comunista Alvaro Cunhal era rifugiato all’estero e persino il moderato socialista Mario Soares, cui il Presidente Marcelo Caetano aveva restituito la libertà pochi anni prima, era visto con sospetto dagli ambienti governativi più oltranzisti.
Dopo il ricevimento in questione mia moglie ed io ci recammo a casa dell’Addetto militare italiano, che aveva organizzato una cena di saluto in vista della nostra partenza. Egli abitava allora in un bell’appartamento di Avenida das Amoreiras, non molto distante dall’Hotel Ritz e quindi in sostanza nella stessa zona della mia abitazione, una zona questa che, come dirò tra poco, venne ad essere al centro degli avvenimenti di quella che fu poi chiamata “Rivoluzione dei Garofani”. Nel rientrare a casa verso l’una di notte ci colpì un insolito movimento di automobili intorno alla Praça Marques de Pombal e lungo le strade parallele ai giardini che su di essa si aprono. A quell’ora cinema e teatri erano chiusi ed il traffico cittadino era normalmente assai modesto. Chissà come mai quella sera tante auto – qui è opportuno sottolineare che si trattava di normalissime auto civili – circolavano ancora per le strade!
La spiegazione mi venne poche ore dopo: verso le sette del mattino del 25 Aprile fui infatti svegliato dalla telefonata di una persona amica che mi invitava a sintonizzare subito la mia radio sulla emittente Radio Clube de Portugal dato che essa stava trasmettendo notizie molto importanti. Essa stava infatti, come ho subito sentito, avvisando la popolazione che forze amiche stavano circondando la città per porre fine alla dittatura e chiedeva alla popolazione di stare calma e di non allarmarsi.
In realtà, la cittadinanza era in larga parte ancora ignara di quanto era accaduto durante la notte, tanto che molti si sono ancora recati al lavoro come se nulla fosse avvenuto. È stato infatti solo verso le otto e mezzo o le nove del mattino che si sono visti i carri armati prendere posizione nelle strade, almeno in quelle della parte alta della città ed attorno al Parco Eduardo VII a quanto ho potuto io stesso constatare. Essi venivano così a presidiare l’area ove si trovava il comando militare occupato nella notte dai militari che vi si erano diretti con le loro auto, nonché la sede della radio che con la trasmissione della canzone “Grandola vila morena” aveva dato il segnale d’inizio del movimento militare. Nessuna meraviglia quindi che i primi cortei con bandiere rosse siano apparsi nelle vie cittadine solo parecchie ore più tardi. Meravigliava invece il fatto che la Giunta Militare nel frattempo costituitasi e di cui si annunciava a ripetizione un imminente proclama continuasse a non manifestarsi. È stato infatti necessario attendere la tarda serata per udire l’atteso proclama, mentre intanto il deposto Presidente della Repubblica Americo Thomas ed i membri del governo Caetano si erano rifugiati nella centrale caserma della Guardia Nacional della Plaza do Carmo, subito circondata dai carri armati del movimento insurrezionale che però non hanno condotto altre operazioni contro le personalità del deposto regime.
Fin qui la successione degli eventi registrati direttamente. Ciò che stava accadendo dietro le quinte mi è stato spiegato in prosieguo di tempo, quando non ero già più in Portogallo, da fonti di fiducia e molti anni dopo confermato da un membro del deposto regime, che ho avuto occasione di incontrare nelle sue funzioni di Console Generale in un paese europeo importante sede delle Nazioni Unite, nonché da uno degli ufficiali che presero parte al colpo militare, perché questo è stata in sostanza all’inizio la cosiddetta Rivoluzione dei Garofani, ossia un movimento cui la popolazione portoghese era stata sostanzialmente estranea e di cui non aveva cognizione. Che da essa siano poi germinati tanti altri sviluppi politici di grande rilievo è un fatto indubbio ma, appunto, si è trattato di sviluppi successivi.
Era accaduto questo. La sera del 14 marzo, quella in cui avevo notato insoliti movimenti nelle caserma vicina alla nostra Ambasciata, vi era stata una riunione di coordinamento degli ufficiali che l’indomani con l’appoggio della colonna proveniente da Caldas da Rainha avrebbe dovuto attuare il colpo di mano contro il governo. Di ciò avevano però avuto sentore gli ambienti governativi che avevano di conseguenza sventato l’iniziativa. Ma di tale fatto non era stato possibile informare il gruppo dei militari di Caldas da Rainha che si è perciò messo in movimento raggiungendo Lisbona ove, come sopra detto, fu bloccato dalle forze governative.
Questo episodio aveva però fornito la prova ai militari golpisti di come sarebbe stato abbastanza facile rovesciare il governo. Non è chiaro se questo primo tentativo abortito avesse la stessa matrice politica di quello che ebbe poi luogo a poco più di un mese di distanza: questo secondo sì largamente gestito dalle forze della sinistra più avanzata. Ma è lecito dubitarne dal momento che il 25 aprile sono apparsi alla ribalta nomi di militari diversi e che i provvedimenti adottati dal governo contro gli autori del tentativo del 15 marzo sono stati in sostanza moderati, né vi è stata, come invece avrebbe potuto essere, una campagna propagandistica violenta.
A Caetano ed al suo governo fu subito chiara la matrice di sinistra estrema dei militari autori del colpo del 25 aprile. Ne fa fede una serie di episodi intercorsi dopo che il governo si era rifugiato nella caserma del Carmo, episodi questi poco conosciuti ma avvalorati dalle assicurazioni fornitemi al riguardo e, come sopra anticipato, sostanzialmente autentici anche se con sbavature di dettaglio in parte diverse. Caetano si sarebbe dunque messo subito in contatto con il Generale Spinola – rimasto estraneo agli eventi della notte tanto che per convincerlo ad intervenire fu inviato a casa sua un giovane funzionario – invitandolo a prendere la direzione del movimento golpista al fine di evitare che il suo controllo finisse nelle mani della piazza (“a revulaçao na rua”) con imprevedibili e pericolosi risvolti. Spinola, generale di vecchio stampo, prima di accogliere tale invito si sarebbe assicurato, sempre tramite tale funzionario, che esso provenisse effettivamente da Caetano e, solo dopo averne avuto la certezza, si sarebbe adoperato per prendere in mano la situazione, così come è poi realmente accaduto. Per comprendere la situazione occorre nuovamente ricordare che Spinola godeva di un indubbio prestigio tra i militari e che egli era stato considerato come un serio oppositore del governo. La sua “scesa in campo”, come si direbbe oggi, non poteva quindi essere accantonata dai militari golpisti anche sotto il profilo della opportunità di fare presiedere la nuova Giunta di governo da una conosciuta e rispettata personalità. Da notare che nulla è stato fatto nei confronti degli esponenti del deposto regime, alcuni dei quali (Marcelo Caetano ed il Ministro degli esteri Rui Patricio), dopo una sosta nell’isola di Madera, hanno intrapreso in piena calma una nuova ed in taluni casi lucrosa vita in Brasile.
È quindi lecito pensare che sia stato questo il motivo che ha impedito alla Giunta di presentarsi all’opinione pubblica con il preannunciato proclama prima della tarda serata del 25 aprile, anziché nelle prime ore del mattino come sarebbe stato logico attendersi. Ed è anche lecito pensare che i tre cosiddetti colpi di Stato tentati da Spinola (luglio e settembre 1974 ed 11 marzo 1975) per arginare la grave deriva marxista sviluppatasi già a partire dall’indomani della rivoluzione del 25 aprile 1974 possano anch’essi ricondursi a questa vicenda iniziale. È noto infatti che dopo il rientro in Portogallo di Alvaro Cunhal e le cerimonie celebrative del 1° Maggio, subito divenuta data simbolica del nuovo corso della vita politica portoghese, il nuovo governo ha prontamente liquidato il problema coloniale come era da molti auspicato, ma ha anche creato scompiglio e sconforto in importanti settori della vita economica e sociale assumendo connotazioni sempre più spiccatamente marxiste. Una svolta questa che non poteva certo piacere al generale Spinola nel frattempo nominato Presidente della Repubblica e sicuramente divenuto una scomoda presenza per i dirigenti dell’estrema sinistra allora detentori del vero potere.
I tentativi peraltro non ebbero successo tanto che Spinola e la sua famiglia, dopo quello del marzo 1975, furono obbligati a rifugiarsi all’estero mentre a Lisbona si insediava saldamente al potere il generale Costa Gomes, come già detto uomo di sinistra, affiancato da un “Consiglio della Rivoluzione” nel quale dominavano i golpisti del 25 aprile 1974.
Ma nel 1976 fu approvata la nuova costituzione e, mentre a capo della Repubblica fu chiamato Eanes, conseguì la maggioranza il partito del socialista Mario Soares uomo politico di spessore ed alieno da posizioni estremistiche.
Fu così che, dopo un’altra serie di complicati sviluppi succedutisi a partire da quella crisi, il paese ha intrapreso a partire dal 1979 una marcia di progressivo allontanamento dagli eccessi che hanno caratterizzato la situazione politica dei mesi successivi al 25 aprile 1974, marcati altresì dalla fine della presenza coloniale in Africa con il conseguente e non secondario problema costituito dai cosiddetti “retornados” ossia da coloro rientrati in Portogallo a seguito della proclamazione d’indipendenza di Angola, Guinea, Mozambico e Capo Verde.
Il Portogallo aveva nel frattempo mutato faccia e cominciato a guardare agli sviluppi della scena europea, al suo nuovo futuro per approdare infine a quello della via democratica che in prosieguo di tempo, nel 1986, lo avrebbe inserito nell’Europa comunitaria.
UN PICCOLO CESSNA IN VOLO SULL’ALTIPIANO MOZAMBICANO
Un’esperienza per me indimenticabile è stata quella di un volo su un piccolo aereo CESSNA che mi portava dalla costa mozambicana ad una località situata su un altopiano dell’interno. A bordo vi era posto solo per il pilota ed un passeggero: io.
Erano le prime ore di un mattino limpidissimo e senza nuvole. La visibilità era perfetta; la vista che si apriva ai miei occhi era dunque ottimale a raggio di orizzonte. Dopo avere lasciato alle spalle la fascia pianeggiante che si apre sull’Oceano Indiano ci dirigevamo verso occidente e qui si imprime nel mio ricordo un’immagine indimenticabile: quella di essere a bordo di un moscerino ridicolizzato dalla grandiosità della natura africana. A destra e a sinistra si estendeva a perdita d’occhio una piana rigogliosa ed affascinante mentre di fronte a noi si alzava d’improvviso un alto e sterminato zoccolo quasi tagliato con l’accetta. Mi parve di galleggiare nel vuoto!
LA CRISI DI CIPRO (Luglio 1974)
Ici Sauvagnard!
Per inquadrare l’episodio che sto per descrivere occorre precisare che esso si colloca nel pieno della crisi di Cipro del luglio 1974.
Ero rientrato al Ministero degli Esteri ai primi di maggio di quell’anno divenendo capo dell’Ufficio Paesi Mediterranei quando, a seguito di un’improvvida e per di più mal eseguita iniziativa dei Colonnelli greci allora al potere ad Atene, scoppiò a Cipro la drammatica e grave crisi che – dopo concitati eventi che miravano all’estromissione ed eventualmente all’uccisione dell’Arcivescovo Makarios Presidente della Repubblica di Cipro inviso ai colonnelli in quanto divenuto simbolo della Grecia democratica – provocò l’intervento e lo sbarco di truppe turche nell’isola che era allora caratterizzata da un’intricata e spesso tutt’altro che pacifica mescolanza di popolazioni delle due etnie (greca e turca) che la compongono.
La mia famiglia era rimasta a Lisbona per permettere ai nostri figli di terminare colà l’anno scolastico malgrado le mutate condizioni politiche determinate in Portogallo dalle vicende della cosiddetta “Rivoluzione dei Garofani”. Ero perciò solo non soltanto a casa mia ma anche in ufficio perché, per andare incontro alle richieste dei miei due colleghi, avevo loro concesso di essere assenti nel mese di giugno-luglio, l’uno per una missione e l’altro per ferie, pensando che in estate non sarebbe accaduto nulla di straordinario cui non potessi sopperire da solo tra l’altro impadronendomi nel contempo dei vari dossier di competenza dell’ufficio. Aggiungo che – date le lungaggini allora esistenti – non mi era stato ancora installato il telefono in casa!
Invece…accadde l’imprevisto. Mi ritrovai da solo a fronteggiare la valanga di telegrammi e al succedersi degli avvenimenti con il telefono reso caldo dalle chiamate.
Fu così che dovendo essere reperibile anche nelle ore notturne diedi istruzione all’Ufficio Cifra (non esisteva allora quella Unità di Crisi del Ministero degli Esteri che oggi è così duramente e costantemente impegnata nell’affrontare gli eventi drammatici del nostro pianeta) di chiamarmi in caso di bisogno al numero telefonico della casa di mio fratello situata al piano sopra al mio.
Il primo sbarco turco nell’isola ebbe luogo il 20 luglio con la costituzione di una prima testa di ponte che venne poi progressivamente allargata a seguito di altri sbarchi e drammatici avvenimenti che molto agitarono la Comunità internazionale e – per quanto ci riguardava – in modo particolare il processo di consultazione politica tra i Paesi membri della Comunità europea. Fu così che una bella notte (saranno state l’una o giù di lì) mia cognata in camicia da notte bussa ripetutamente alla mia porta di casa riuscendo a svegliarmi nel pieno del mio pesante sonno. Mi dice con voce agitata “Ti stanno chiamando dal Quai d’Orsay!” Pensai che avesse sognato ma lei mi impose di andare subito a casa sua per rispondere al telefono che aveva lasciato aperto. Effettivamente dall’altra parte del filo una voce femminile mi dice “Içi le Quai d’Orsay. Ne quittèz pas!” Subito dopo una concitata voce maschile mi apostrofa: “ Mr. Moro, Mr. Moro! Içi Sauvagnard” (l’On. Moro era allora Ministro degli Esteri). Avendo detto al Ministro francese (di carattere notoriamente – oggi si direbbe – “incazzoso”) che io non ero Moro ne ricevetti un’irata risposta “ Mais qui étes-vous?” Dopo essermi qualificato ricevetti finalmente il messaggio che egli avrebbe voluto dare personalmente al suo collega e nostro Ministro degli Esteri, e cioè la proposta di attuare con immediatezza un intervento di carattere umanitario ma con la precisazione che se l’Italia non avesse risposto entro un’ora si considerava che il nostro Paese aderiva all’iniziativa.
La proposta non era irragionevole, ma preferii rimbalzare la palla al Vice Direttore politico – l’allora Ministro Walter Gardini – con il quale seguivo gli eventi ciprioti e che dovetti a mia volta svegliare di soprassalto. Anche lui era d’accordo in linea di principio ma volle a sua volta certificarsi – non essendo Moro facilmente raggiungibile a quell’ora (era in vacanza a Formia) – con il Segretario Generale, Ambasciatore Roberto Gaja. Come prevedibile egli ci diede il suo assenso alla nostra adesione all’iniziativa francese. Intanto il tempo passava. Ma come trovare dalle nostre case e senza perdere minuti preziosi il numero telefonico del Quai d’Orsay? Si decise allora di fare alzare dal letto il nostro Ambasciatore a Parigi, Franco Malfatti, che finalmente raggiunse nei tempi indicati il non più stizzito Sauvagnard. Ce l’avevamo fatta!
Altro episodio interessante e certo non conosciuto riguarda il prosieguo degli sviluppi della crisi. Come conseguenza di essa era caduto ad Atene il regime dei colonnelli e venne richiamato dall’estero, dove si era in precedenza rifugiato, Karamanlis che formò un nuovo governo.
L’Ambasciatore Ducci, allora Direttore degli Affari Politici, decise di recarsi ad Atene e ad Ankara per saggiare le loro posizioni anche in vista della Assemblea Generale delle Nazioni Unite che aveva inizio, come di costume, a settembre. L’idea fu approvata dalla Presidenza del Consiglio che mise a disposizione l’aereo presidenziale: unici passeggeri, l’Ambasciatore Ducci ed il sottoscritto. I colloqui nelle due capitali furono amichevoli nei nostri confronti ma non diedero alcuna speranza di sviluppi positivi data la fermezza delle rispettive posizioni.
Da allora in poi la vicenda entrò a far parte delle agende di tutte le sessioni delle Nazioni Unite ed in particolare anche dei vari tentativi del Segretario Generale. Il resto è storia di questi giorni.
RAPIMENTO E UCCISIONE DI MORO
La fine della mia funzione di capo dell’ufficio competente per i problemi del Mediterraneo e l’inizio della mia funzione di Ministro Consigliere all’ Ambasciata di Mosca si intrecciano con uno dei momenti più drammatici della storia politica italiana: il rapimento e la successiva uccisione di Moro.
Il primo evento accade il giorno che era stato fissato per un importante incontro bilaterale italo-francese allo scopo di definire, possibilmente, i termini per la conclusione del difficile e defatigante contenzioso con la Malta di Dom Mintoff (ricordo che quest’ultimo aveva cacciato gli inglesi e la base NATO) dall’isola alla ricerca di un da lui auspicato status di neutralità. I maligni dicevano che Dom Montoff fosse figlio di un cuoco che era stato a servizio degli inglesi e che per sentimenti di rivalsa nei loro confronti si era deciso a quella mossa.
Presidente della delegazione era l’avvocato Manzari, un consigliere giuridico molto vicino a Moro. Egli mi aveva pregato di passare da lui qualche tempo prima della riunione per un ultimo aggiornamento sulle carte da discutere. Fu così che all’ora concordata scesi dal secondo piano ove si trovava il mio ufficio per raggiungere l’ufficio di Manzari situato al primo piano. Dovetti passare davanti agli uffici del Servizio Stampa e qui trovai grande confusione ed eccitazione. Mi informai di tutto quel trambusto e mi venne detto quel che era accaduto: pochi minuti prima era stata attaccata dalle Brigate Rosse la scorta di Moro allora Presidente del Consiglio. Non erano ancora noti molti dettagli. Dalle primissime notizie sembrava che egli fosse stato ferito e portato all’ospedale. Mi precipitai di corsa dall’Avvocato Manzari portandogli questa drammatica notizia che egli non aveva ancora avuto. Impallidì e si attaccò al telefono ricevendo le informazioni che chiarirono quel che era successo ossia la strage dei membri della scorta ed il rapimento di Moro.
A merito della coscienziosità dell’avvocato Manzari debbo aggiungere che la vicenda non gli impedì di presiedere i lavori della riunione fissata. Fu questo uno dei miei ultimissimi impegni di capo ufficio perché di lì a poco partii per assumere il mio nuovo incarico a Mosca.
E là mi aspettava il mio secondo incrocio con la vicenda Moro. Accadde infatti che il mio Ambasciatore si trovasse, se non ricordo male, ad Ulan Bator per presentare le sue credenziali essendo egli accreditato anche presso la Mongolia quando giunse la notizia che Moro era stato ucciso ed il suo corpo ritrovato nel bagagliaio di una piccola vettura in pieno centro di Roma. Come d’uso venne subito aperto presso la nostra Ambasciata a Mosca il protocollare registro delle condoglianze.
A firmarlo si presentarono alti personaggi sovietici che furono ricevuti da me.
A volta la storia ci passa vicino a nostra insaputa!
UN PAPA POLACCO !
Il cardinale polacco Karol Wojtyla era stato eletto Papa da poco tempo – prendendo come è noto il nome di Giovanni Paolo II - quando giunse in visita a Mosca il Vice Capo di Stato Maggiore italiano che rendeva visita al suo omologo sovietico: il tipico massiccio generalone con il petto pieno di medaglie.
Nella mia posizione di numero due della nostra Ambasciata fui incaricato di accogliere all’aeroporto di Sheremietovo il nostro alto ufficiale che viaggiava con l’aereo di linea italiano, l’Alitalia (nome che letto come acronimo in inglese era Always Late In Take-off Always Late In Arrival). Anche in quella occasione l’aereo italiano fece onore a tale definizione: il ritardo andava sempre più aumentando e così la nostra attesa – quella del generale sovietico e mia – andava protraendosi.
Come d’abitudine, anche in quel caso le autorità sovietiche avevano predisposto una saletta riservata corredata da un tavolinetto con sandwichini vari e bibite tra cui una buona bottiglia di vodka cui il generale sovietico concedeva particolare attenzione anche se l’arrivo dell’ospite avveniva alle prime ore del mattino.
Più tempo passava e più vodka spariva nello stomaco del generale sovietico. Accadde così che dopo qualche tempo egli, di punto in bianco e mentre la nostra conversazione girava su temi banali, mi si rivolse con una battuta che riteneva spiritosa : “Finalmente abbiamo un Papa comunista!”. Ovvia la mia reazione, scopertamente intonata a spirito di presa in giro : “Non le sembra, caro generale, di averla sparata un po’ grossa? – aggiungendo poi a titolo di bonaria cortesia – a meno che lei non intenda invece dire che si tratta di un Papa che da giovane ha avuto esperienze di lavoro in miniera o in fabbrica....”. Subito dopo la conversazione si riannodò sui temi generici tipici di queste occasioni, quello che gli anglosassoni definiscono “small talk”. Ma la cosa non finì lì. Parecchio tempo e parecchi bicchieri di vodka dopo, il generale sovietico interrompe di nuovo la nostra futile conversazione e con aria – questa volta improntata ad autentica e sincera sorpresa commista di vera indignazione – mi disse: “Ma come si fa ad eleggere un Papa polacco!” In vino veritas usa dirsi: qui era più pertinente dire “in vodka veritas !”
Evidentemente - e al di là della tradizionale scarsa stima dei russi nei confronti dei polacchi - la dirigenza del Cremlino si rendeva ben conto già allora delle implicazioni che l’odiato “Papa polacco” avrebbe potuto – come poi di fatto accadde – comportare per il mondo sovietico e ne era tanto preoccupato da indurre il mio generalone alle sue certo poco diplomatiche ed inopinate sortite.
RUSSIA SOTTOZERO: MENO 51!
Avevamo deciso di trascorrere gli ultimi giorni dell’anno a Zavidovo, una località sulle rive del Volga a circa 150 km da Mosca ove la sempre presente ed utile ma qualche volta asfissiante UPDK (ossia il Servizio per le esigenze del Corpo Diplomatico a cura del cerimoniale dell’URSS) aveva messo a disposizione dei diplomatici alcune villette in legno che durante la seconda guerra mondiale erano state adibite ad alloggio degli ufficiali presi prigionieri dalle truppe sovietiche. Erano abbastanza spartane ma comode e piacevoli per trascorrervi, come ho già detto, sulle rive della “Madre dei Fiumi” qualche giornata all’aperto ed in mezzo alla campagna russa sempre così affascinante e piena dei ricordi della grande letteratura russa.
Vi eravamo già stati altre volte, così come i vari nostri colleghi delle altre Ambasciate, sia d’inverno per fare un po’ di sci di fondo sulle rive del fiume o in mezzo ai boschi, sia d’estate per qualche piccola gitarella sul fiume o su un isolotto coperto da betulle alla ricerca di qualche improbabile fungo. Era a nostra disposizione una piccola barchetta in metallo con motore fuoribordo condotta da un simpatico e gentile russo del posto che ci accoglieva con un cortese “pagialsta” (mi sia consentita questa traslitterazione fonetica). Il suo modo di pronunciarlo lo trasformava però in qualche cosa di ancora più accogliente perché egli diceva “paagiaaaalsta” con il suono dolce e melodioso di certe canzoni popolari russe.
Quando siamo partiti da Mosca con la mia FIAT 132, la temperatura segnava un meno 15 gradi cosa che non ci preoccupava, essendo tra l’altro sicuri che la strada – una importante e rettilinea arteria nazionale – sarebbe stata (ed infatti era) ghiacciata sì, ma priva di neve e ovviamente assolutamente pianeggiante.
Giunti al bivio per andare a Zavidovo, ho avuto però una grande difficoltà ad imboccarlo perché – me ne sono accorto in quel momento – lo sterzo non funzionava quasi più essendo quasi bloccate le ruote a causa della neve che vi si era attaccata. Dopo qualche attimo di paura sono comunque riuscito ad imboccare il vialetto che conduceva alla nostra meta. Qui giunti i nostri colleghi vicini ci hanno detto che eravamo stati degli incoscienti: “Vi rendete conto che siamo a 30 sottozero!”. Era accaduto che la temperatura, anche perché eravamo in aperta campagna, era improvvisamente precipitata di ben 10 – 15 gradi. Mi sono detto che è forse vero il detto latino “audaces fortuna iuvat”. Ma il bello doveva ancora venire.
L’indomani mattina uscendo di casa ho avuto una visione sorprendente: la macchina del nostro vicino svedese, una Volvo (parcheggiata all’aperto come tutte le altre e rigorosamente non chiuse a chiave perché altrimenti non sarebbe stato possibile riaprire le portiere) aveva cambiato colore! Era accaduto che a causa del freddo intenso della notte e con un ulteriore abbassamento della temperatura si era …spogliata, nel senso che aveva perso tutta la vernice ed era perciò visibile solo lo strato protettivo. Ad onta di tutte le male lingue sulle FIAT debbo dire che invece la mia macchina conservava intatto il suo colore blu cosa che mi riempì di orgoglio nazionale.
A quelle temperature non è possibile sciare e perciò decidemmo di andare a passeggio nel vicino villaggio. Sulla facciata di un edificio che ostentava un termometro leggemmo la temperatura di quel momento: meno 51! Pensammo con raccapriccio al freddo che dovettero patire i nostri soldati ed ufficiali durante la seconda guerra.
Per dare un’idea di quanto freddo sia quel freddo aggiungo che quando qualche giorno dopo la temperatura risalì a meno 20 ebbi l’impressione che fosse tornata una temperatura gradevole tanto da poter andare a sciare: mal me ne incolse perché ad onta dei guanti da sci mi ero quasi congelate le dita.
Per non chiudere queste mie note sin qui condotte con un pizzico di frivolezza mi sia consentito cambiare registro e tornare ad un tono leggero.
Una battuta allora ricorrente tra le molte altre, anche di carattere politico, era la seguente: ” Sai perché i russi mangiano tanti gelati d’inverno? … Per scaldarsi!”
OLIMPIADI DI MOSCA 1980
Le Olimpiadi di Mosca posero al governo sovietico un grave problema ossia quello di permettere ai corrispondenti delle radio, delle televisioni e dei giornali di tutto il mondo di contattare direttamente e senza intralci le rispettive redazioni per riferire via via ed ora per ora quanto avveniva negli stadi. Per comprendere la portata e le implicazioni di questa decisione da adottare occorre tenere presente che a quell’epoca non esistevano nemmeno gli elenchi telefonici proprio per evitare contatti interpersonali, soprattutto con stranieri che le autorità di allora consideravano potenzialmente nocivi al regime.
Ma le Olimpiadi dovevano mostrare un volto dell’Unione Sovietica che fosse più congeniale alle concezioni democratiche dei più importanti paesi occidentali.
Tra l’altro venne anche dato molto più spazio e visibilità ( se così posso dire) alla musica che piaceva allora ai giovani americani. Bisognava dunque fare buon viso a cattivo giuoco. Così, di punto in bianco, le residenze dei corrispondenti esteri residenti a Mosca, come anche gli alberghi e le residenze delle delegazioni sportive, furono in grado di usare la teleselezione con grande sollievo e piacevole sorpresa dei corrispondenti delle varie testate residenti nella capitale sovietica.
Di questo succoso privilegio poterono approfittare anche chi, come me e come altri diplomatici, aveva la propria residenza in edifici situati nei pressi di quelle che potrei chiamare “zona franca olimpica”.
Ma la pacchia non era destinata a durare più di tanto. Di fatti ce ne accorgemmo pochi giorni dopo la fine delle Olimpiadi e come al solito senza alcun preavviso.
Un bel giorno digito da casa il prefisso della teleselezione per Roma (così come avevo fatto il giorno prima) e…non succede nulla! Chiamo allora il ben noto centralino telefonico sovietico per avere spiegazioni chiedendo come mai non riuscissi ad avere la linea con Roma. Mi fu risposto che la teleselezione non esisteva proprio! Alla mia osservazione che proprio il giorno prima avevo potuto servirmene la centralinista rispose con aria stupita: “Si vede che è stato davvero fortunato!”
DOMANDE …. SOSPETTE
Il nostro Consigliere Commerciale a Mosca ricevette una volta istruzioni dal Ministero del Commercio Estero di raccogliere non ricordo quali dati di carattere economico relativi all’Unione Sovietica. Con la sua abituale solerzia e correttezza egli rivolse quindi la domanda in questione al funzionario del competente Ministero sovietico. Questi gli rispose di essere spiacente di non poterglieli fornire perché si trattava di dati riservati. Questo fu dunque riferito al nostro Ministero che non insistette nella richiesta.
Sennonché … Colpo di scena! Un fine settimana invernale, quando a Mosca non vi era molto altro da fare, il nostro simpatico collega, così come era diffusa abitudine tra noi diplomatici, si recò in una grande libreria aperta al pubblico e quindi anche a noi stranieri, a curiosare qua e là tra i vari scaffali contenenti opere letterarie e di ogni altro genere. Con suo stupore, consultando un testo di carattere economico, trovò proprio i dati che gli erano stati richiesti da Roma. Si affrettò quindi a trasmetterli a chi di dovere.
Qualche tempo dopo egli ebbe occasione di dover contattare quello stesso funzionario sovietico per un’altra questione. Ne approfittò per raccontargli quanto gli era accaduto dicendogli che dunque quei famosi dati erano pubblici e alla portata di consultazione da parte di chiunque. La reazione del suo interlocutore fu emblematica di quale fosse il clima di quei tempi.
Egli con aria inquisitoria gli rispose: “Se si trattava di dati pubblici perché me li ha richiesti?”. Parole non ci appulcro, come avrebbe detto il nostro Padre Dante!
È MORTO BREZHNEV !
Tornando a casa una sera, dopo una delle solite cene che tra noi diplomatici ci scambiavamo a Mosca, trovo un’urgente telefonata del carabiniere di turno in Ambasciata il quale mi dice di chiamare urgentemente il Ministero a Roma (la differenza di fuso orario di due ore rendeva ciò più che normale) perché il capo del Servizio Stampa aveva bisogno di un’informazione urgentissima. Il capo servizio in questione era allora Sergio Berlinguer. Appena riesco a parlargli egli mi dice in tono assai eccitato di avere appreso da una notizia di agenzia che era morto Brezhnev e si meravigliava che io non avessi riferito nulla a questo proposito. Gli rispondo che nulla mi risultava al riguardo e che nulla lasciava trasparire l’essersi verificato tale fatto, ma essendo da tempo convinzione diffusa che l’allora Segretario Generale del PCUS fosse molto malato, la cosa poteva in effetti avere apparente fondamento. Gli riferisco anche che nessuna anomalia avevo riscontrato nella circolazione in città, che la radio sovietica trasmetteva i soliti programmi e che dunque nessun elemento pareva indicare la fondatezza di quanto riferito dall’agenzia di stampa. Mi sarei comunque subito informato presso colleghi e corrispondenti stampa. Subito contattati, questi ultimi mi confermano che anche loro avevano ricevuto una telefonata simile dalle rispettive redazioni ma anche a loro nulla risultava. Richiamo subito Berlinguer a Roma, ma mi viene detto che nel frattempo egli era uscito dal Ministero e che la questione si era del tutto sgonfiata. Quel che era successo lo appresi qualche ora dopo dai corrispondenti dei giornali italiani di stanza a Mosca.
Ignoravo allora ed allora appresi che esiste (almeno esisteva allora) una sorta di mercato dei servizi televisivi in cui i responsabili di settore vendono ed acquistano servizi televisivi che possono interessare agli utenti di altri paesi. Ebbene, in quella occasione la TV sovietica aveva offerto un servizio sul Cremlino, che ovviamente aveva suscitato grande interesse. Ma qualche tempo dopo l’offerta di questo servizio era stata inspiegabilmente ritirata dalla TV sovietica. Ne era seguita una ridda di voci sui possibili motivi di questo ritiro e così, da una ipotesi all’altra, aveva finito per prendere corpo la convinzione che ciò fosse dovuto alla morte di Brezhnev. Questa ipotesi prese addirittura il connotato della veridicità sino al punto da suscitare qualche ripercussione persino sul mercato delle valute! Nulla era naturalmente più lontano dalla verità: quella che noi bistrattati funzionari e giornalisti conoscevamo invece assai bene e cioè che Brezhnev era ben vivo anche se non vegeto come del resto già non lo era prima. Potenza delle voci!
L’ALBA DELLA COOPERAZIONE POLITICA EUROPEA
Con la Conferenza di Messina voluta dall’allora nostro Ministro degli Esteri Gaetano Martino ed i successivi Trattati di Roma ha preso avvio veloce la realizzazione del sogno europeo, che in Italia e ancora sotto il fascismo era già stato auspicato dal cosiddetto Manifesto di Ventotene.
Si tratta di ben noti eventi. Ma è forse opportuno ricordare oggi – quando molto si parla di Unione europea con una visione di ulteriore sviluppo politico delle attuali strutture dell’edificio sin qui creato – che il cammino europeo venne intrapreso con la costruzione di “mattoni” spiccatamente economici: la CECA e l’EURATOM.
Di concreta cooperazione politica si cominciò infatti a parlare in termini concreti solo qualche anno dopo – quando l’Europa era composta da solo sei membri – grazie alla visione di due uomini allora a capo dei settori politici dei rispettivi Ministeri degli Esteri: il belga barone Davignon ed il nostro ambasciatore Roberto Ducci.
Essi decisero che i sei direttori politici dovevano porre in essere un “comitato politico” per discutere informalmente i problemi dell’attualità internazionale. Nacque così il cosiddetto Comitato Davignon che ebbe poi sempre maggiore rilevanza ed autorevolezza fino a sfociare, anche per effetto dei successivi ampliamenti del numero dei Paesi membri dell’allora CEE, in strutture di ben più ampia portata e livello quali sono gli attuali Consigli europei. La sua natura di incontro informale tra i sei che ben si conoscevano e ben conoscevano i vari dossier, accompagnati da funzionari competenti per materia nel caso fosse necessario qualche più specifico dettaglio, si rivelò utilissimo strumento per la discussione e l’eventuale decisione di qualche passo comune.
L’allargamento del numero dei paesi membri ebbe però la conseguenza che a poco a poco la natura informale venisse alterata assumendo caratteristiche più per così dire formali e burocratizzate con la redazione anche di elaborati documenti finali, non per questo meno importanti dal momento che fissavano punti e linee di concordanza.
All’inizio la cosa non piacque a quei nostri colleghi che noi funzionari degli affari politici in gergo chiamavamo “gli economici”. Ricordo infatti che qualcuno di loro – molto legato all’atmosfera di Bruxelles – definì la cooperazione politica “quel cancro che ci si è attaccato!”
Un dettaglio divertente era costituito dal fatto che i funzionari della Comunità europea che partecipavano alle riunioni non erano ammessi alle discussioni di carattere politico. Gelosi difensori di questa posizione erano i francesi che quando si passava dai temi economici a quelli politici ne esigevano l’allontanamento. Mi suonano ancora negli orecchi le loro parole: “Je vois des personnes qui ne devraient pas être là!” I poveretti erano allora costretti a prendere le loro carte e ad andarsene via in fretta e furia.
Per fortuna quei tempi oggi appaiono lontani, ma forse non è male ricordarci – magari anche con un poco di compiacimento – quanto e quanto lungo è stato il cammino allora intrapreso da due uomini lungimiranti e coraggiosi.
MULTILATERAL FORCE AND OBSERVERS
Dopo il ritorno dalla sede di Mosca venni assegnato alla Multilateral Force and Observers in qualità di Senior Political Adviser. Dopo gli Accordi di Camp David, infatti, era stata costituita questa struttura per monitorare la striscia di territorio al nuovo confine tra Egitto e Israele. La struttura aveva posto il suo quartier generale a Roma nel quartiere dell’EUR e basi nel deserto egiziano sul Mar Rosso. L’Italia aveva contribuito ponendo a disposizione personale civile e militare nonché alcune piccole unità navali per il controllo dello stretto di Tiran. Direttore Generale della MFO era il diplomatico americano Hunt mentre il comandante delle forze militari era un generale norvegese.
Nella mia veste ho pertanto compiuto molti viaggi anche nelle due capitali, Cairo e Gerusalemme nonché anche Tel Aviv dove avevano luogo gli abituali contatti con le rispettive autorità. Come curiosità posso ricordare che essi di regola si svolgevano il giovedì ed il venerdì in Israele mentre il sabato e la domenica avevano luogo al Cairo. A parte gli aspetti di sostanza sui quali non mi soffermo per evidenti motivi ricorderò alcuni episodi ben presenti nella mia memoria.
Quello più tragico riguarda l’assassinio del povero Hunt per mano delle Brigate Rosse. Hunt aveva fissato la sua residenza in una villetta all’EUR protetta da cancello con apertura elettrica e viaggiava a bordo di un auto con vetri blindati. Queste precauzioni non furono sufficienti.
Un giovane delle BR si appostò all’ingresso della villetta e approfittando del breve tempo di attesa dell’auto mentre si apriva il cancello sparò una sventagliata di mitra sul lunotto posteriore della vettura. Hunt era seduto sul sedile posteriore e per sua sfortuna una pallottola penetrò nel lunotto e lo uccise all’istante colpendolo alla nuca. L’attentato fu subito rivendicato dalle BR che si vantarono di avere soppresso un generale americano. Si trattava invece di un innocuo Direttore Generale.
Un episodio divertente riguarda invece il generale norvegese. Non potendo per ovvii motivi climatici esercitarsi sugli sci di fondo si era fatto venire un paio di sci muniti di rotelle e così sciava sì, ma… sulla sabbia del deserto!
ACCORDO DELLA MEZZANOTTE
Questo strano titolo appartiene alla conclusione di un lungo e tormentato negoziato molto tecnico e poco conosciuto che però ebbe allora rilevante importanza per gli addetti di un particolare settore economico strategico: la possibilità di sfruttare economicamente i giacimenti minerari esistenti nelle grandi profondità dell’Oceano Pacifico ossia i cosiddetti noduli polimetallici. Per capire di cosa si trattasse occorre fare dei passi indietro sia di carattere economico che giuridico.
Il Trattato di Montego Bay del 10 dicembre 1982 ha profondamento modificato e innovato le regole del diritto del mare, prevedendo tra l’altro che le ricchezze esistenti nei grandi fondali marini sono da considerare quale “Patrimonio comune dell’Umanità” e non possono perciò divenire proprietà privata di nessun Paese o persona. Tuttavia l’Alta Autorità dei Grandi Fondali Marini, creata appunto dal suddetto Trattato e avente sede a Kingston in Giamaica, può concedere ai consorzi e agli Stati interessati il permesso di sfruttamento delle ricchezze esistenti al di fuori delle aree territoriali o delle eventuali piattaforme continentali degli Stati costieri purché ne derivi un beneficio economico per i Paesi in via di sviluppo gestito appunto dalla suddetta Autorità.
Per quanto concerne il valore economico dei già ricordati noduli polimetallici occorre ricordare che essi contengono oltre al silicio (già di per sé importante ai fini dello sfruttamento di energie alternative come per esempio quella solare per mezzo dei pannelli solari) anche taluni minerali come il rame od il cobalto ai quali si guardava allora con particolare attenzione soprattutto dal punto di vista di riserve strategiche. Ciò perché le vaste aree di accumulo dei noduli si trovano a profondità sui diecimila metri e pertanto la loro eventuale estrazione comporta grosse difficoltà economiche e tecniche.
Per tale motivo e prima che entrasse in vigore l’Alta Autorità molti grandi Paesi avevano comunque costituito dei consorzi nazionali o multinazionali ed avevano ciascuno per conto proprio concentrato la loro attenzione su determinate zone delle superfici di accumulo ritenute di particolare interesse coprendo da segreto le relative coordinate geografiche.
Tra i Paesi interessati ebbero allora particolare importanza (nei quadro del negoziato conclusosi con il Midnight Agreement di cui dirò più sotto) l’URSS da un lato ed un consorzio euro-nippo-nordamericano dall’altro, consorzio quest’ultimo di cui faceva parte anche l’Italia.
L’entrata in vigore delle nuove regole del diritto del mare fissate dal Trattato di Montego Bay ed in particolare la creazione dell’Alta Autorità dei Grandi Fondali Marini imponeva perciò la necessità di un negoziato tra i vari paesi interessati onde evitare che vi fossero sovrapposizioni tra le zone di possibile sfruttamento che ciascuno dei paesi aveva preso segretamente in considerazione.
Ma qui sorse un problema giuridico di non poco conto: gli Stati Uniti – che peraltro erano il partner principale del consorzio euro-nippo-nordamericano – non avevano ratificato la loro adesione al Trattato e quindi non avevano uno status giuridico che le consentissero di partecipare ufficialmente sotto il proprio nome al negoziato per la definizione delle rispettive aree di interesse. Era comunque ovvio che le trattative dovessero includerli se si voleva davvero raggiugere un’intesa dal momento che le coordinate geografiche della zona mineraria euro-nippo-nordamericana erano gelosamente custodite dagli esperti statunitensi. La soluzione trovata privilegiò il bizantinismo giuridico: si decise infatti che gli statunitensi fossero ufficialmente gli esperti delle delegazioni occidentali. Per dare credito a questa finzione si stabilì che essi si riunissero con i sovietici in una sala diversa da quella dove avevano luogo i negoziati ufficiali. Machiavelli insegna! Fu così che per i lunghi mesi che richiese l’andamento del negoziato le riunioni ebbero luogo o nelle capitali dei paesi ufficialmente parti o in zone “neutre” come ad esempio in ambito Nazioni Unite. Quale capo della delegazione italiana dovetti dunque viaggiare molto. Una curiosità: quando si rivelò opportuno tenere le riunioni negli Stati Uniti (senza includere il Palazzo di Vetro) non si andò a Washington bensì a New York nella sede della rappresentanza americana presso l’ONU!
In sede Nazioni Unite si svolgevano frattanto accanite contrapposizioni tra i paesi del terzo mondo che guardavano a Mosca come al paladino dei loro interessi economici garantiti dalle regole concernenti il Patrimonio dell’Umanità. Ed in effetti la contrapposizione politica in aula vide all’inizio attuarsi il ben noto schema polemico tra gli intervenienti dei due schieramenti, con il delegato sovietico che sosteneva le tesi dei paesi in via di sviluppo. Ma dopo qualche tempo, e cioè quando da un lato si andava profilando la possibilità di accordo sulla definizione dei siti e dall’altro migliorò il clima delle relazioni USA-URSS, i delegati dei paesi del terzo mondo, che poco o nulla sapevano dell’andamento del negoziato in corso, videro con stupore che con sempre maggiore frequenza i delegati sovietici appoggiavano determinate proposte occidentali e viceversa. Quando si dice la potenza degli interessi nazionali!
Dopo un delicato confronto tra le coordinate dei due principali gruppi contrapposti ci si accorse che non vi era pericolo di sovrapposizione con altri paesi quale la Cina e ci si accinse dunque a confrontare le coordinate dei due blocchi negoziali per ridefinire le zone di reciproco interesse senza incorrere in sovrapposizioni. L’intesa venne alfine trovata.
Si trattava dunque di tradurla in un formale accordo giuridico. E sorse qui un problema: gli esperti giuridici delle due parti sostennero che era necessario fare ricorso ad un complicato meccanismo e cioè a quello di porre in essere uno strumento particolare. Si trattava di redigere un accordo quadro centrale sotto l’egida delle Nazioni Unite ma integrato da una costellazione di accordi bilaterali tra i vari Stati interessati, facenti tutti e ciascuno riferimento all’accordo quadro centrale. Non solo, occorreva inoltre che tutti entrassero in vigore non alla stessa ora ma nello stesso momento fisico. Poiché erano coinvolti paesi situati ai poli opposti del globo fu necessario trovare per l’accordo centrale un orario che rendesse possibile soddisfare anche questa esigenza giuridica. Lo si individuò appunto nella mezzanotte di New York. Di qui il misterioso nome di “Midnight Agreement”.
Se dopo tanta fatica si sia o no creato uno strumento utile è un dubbio che è lecito avere perché con il trascorrere degli anni molte cose sono mutate nel panorama mondiale sia sotto il profilo politico che sotto quello tecnologico: basti pensare a quest’ultimo proposito alla introduzione ed esteso utilizzo delle fibre ottiche che hanno largamente sostituito i colossali cavi in rame, metallo quest’ultimo che però continua ad avere grande impiego. Inoltre molti paesi allora in via disviluppo sono all’avanguardia degli indici economici mondiali. Certo oggi di quel complicato accordo non si sente più parlare.
Giorgio Franchetti Pardo