Memorie
Requiem per la collezione archeologica dell’Imperatrice del Brasile
Teresa Cristina di Borbone Due Sicilie (2000-2008)
Bernardino Osio
Sin da ragazzo avevo sentito parlare in famiglia dell’amicizia e dell’ammirazione di Cesare Cantù per l’Imperatore del Brasile don Pedro II. Nutrivo pertanto una certa curiosità e interesse per questo personaggio, illuminato e benefico, cui il Brasile deve la sua intatta grandezza territoriale, l’essersi salvato dalle tragiche esperienze di sanguinosi caudillos che imperversavano nel resto dell’America Latina e aver potuto così diventare un grande paese latino. Non per niente don Pedro II era figlio di una Asburgo e le donne di quella dinastia avevano una predisposizione naturale al buon governo.
Nel 1843 don Pedro II aveva sposato la sorella del re di Napoli Ferdinando II di Borbone Due Sicilie: donna Teresa Cristina. Non bella ma intelligente e colta, sarà illuminata e discreta compagna dell’Imperatore di cui era innamoratissima. Era nata e cresciuta a Napoli, negli anni felici della Restaurazione napoletana che avevano anche visto una ripresa, su vasta scala, degli scavi archeologici a Pompei e a Ercolano. Certamente Teresa Cristina aveva assorbito gli echi e i relativi dibattiti culturali. Tanto è vero che sulla nave brasiliana “Costituiçaõ” che la condusse, assieme ad una piccola squadra navale napoletana, da Napoli a Rio de Janeiro come giovane sposa, vennero imbarcate casse di oggetti antichi di scavo, donati dal fratello: vasi apuli, oggetti di bronzo di uso quotidiano provenienti da Pompei, vetri, frammenti di affreschi.
Nacque così presto in seno alla coppia imperiale l’idea di creare un museo di archeologia etrusco-romana, tale da legare ancor di più alla latinità il giovane Impero del Brasile. E gli invii di materiale archeologico da Napoli proseguirono negli anni, anzi presero, tra il 1853 e il 1859, un aspetto di vero e proprio interscambio culturale tra Napoli e il Brasile. Fu allora che giunsero da Napoli dieci frammenti di affreschi pompeiani, 60 vasi dipinti, una sessantina di bronzi, un centinaio di terrecotte (lampade e anfore), una trentina di vetri. A sua volta, come compenso a tanta generosità , il Brasile iniziò ad inviare a Napoli, cimeli delle antiche civiltà precolombiane del Brasile, destinati a vari musei napoletani ove ancora oggi si conservano, almeno in parte.
Nel 1871 la coppia imperiale visitò Napoli e assistette, fra l’altro, anche a uno scavo a Pompei: grande fu in quei giorni l’emozione di Teresa Cristina di ritrovarsi nella antica capitale di quello che era stato il più bel regno d’Europa, governato dai suoi genitori e dai suoi avi.
Proprio in occasione di questa visita a Napoli, l’Imperatrice decise, oltre a continuare la collezione di pezzi archeologici di provenienza dal Meridione d’Italia, di intraprendere anche delle campagne di scavo in terreni di sua proprietà (ereditati da una prozia Savoia) a Isola Farnese nei dintorni di Roma, terreni sui quali sorgeva l’antica città etrusco-romana di Vejo. Gli scavi vennero affidati ai più noti archeologi romani del tempo: il conte Virginio Vespignani e il professor Rodolfo Lanciani i quali condussero ben tre campagne nel 1878, nel 1880 e nel 1889.
L’ultima campagna di scavi fu effettuata proprio nel 1889 quando la coppia imperiale venne ignobilmente allontanata da Rio de Janeiro. Essi vennero imbarcati nel cuore della notte, su una nave francese diretta a Lisbona, all’insaputa del popolo che li amava, per opera di un gruppo di repubblicani “golpisti” che vollero punire l’Imperatore, reo di riforme illuminate, l’ultima delle quali fu l’abolizione totale della schiavitù (con la cosiddetta legge “aurea”). Pochi giorni dopo lo sbarco in Portogallo, Teresa Cristina morì a Porto il 28 dicembre 1889.
Tutti gli oggetti archeologici raccolti dall’Imperatrice rimasero a Rio de Janeiro, ivi compreso il bellissimo busto di marmo pario di Antinoo, ritrovato a Vejo e da lei donato nel 1880 all’Accademia di Belle Arti di Rio de Janeiro. In totale si calcola che l’intera collezione archeologica dell’Imperatrice annoverasse almeno 700 pezzi. E che costituisse il più importante insieme di archeologia greco-romana dell’intero continente americano.
Devo al compianto professore Aniello Angelo Avella dell’Università di Roma Tor Vergata le prime notizie, datemi nel 1998, sulla collezione archeologica di Teresa Cristina di cui egli stava iniziando a scrivere la prima, esauriente biografia. Peraltro, anche in Italia, si ignorava completamente l’esistenza di detta collezione, anche fra i membri più informati del gregge colto.
Molto incuriosito da tali notizie, ne parlai al professor Gianfranco Cordischi della Sovrintendenza Archeologica del Lazio. Egli, per conto dell’Istituto Italo Latino Americano (IILA), iniziò subito una ricerca approfondita negli archivi romani, trovando abbondante materiale sulle varie campagne di scavo promosse dall’Imperatrice. Si appresero anche notizie sull’ultima campagna di scavo a Vejo del 1889, iniziata pochi mesi prima della morte della Sovrana, in una Roma, ahimè non più papalina ma governata dalla burocrazia del Regno d’Italia. Venne così proibito agli eredi Orléans-Braganza di Teresa Cristina di portare all’estero i reperti archeologici. Vi fu un lungo negoziato e alla fine le eredi decisero di regalarne una parte al Museo Pigorini di Roma e di portarne un'altra parte al loro Castello d’Eu in Francia. Il Pigorini, museo esclusivamente etnografico, considerò non pertinente alla sua vocazione il disporre di pezzi etrusco-romani provenienti da Vejo e di conseguenza decise di farne oggetto di scambio con il Museo di Modena che diede, a sua volta, una serie di pezzi preistorici di origine della Valle del Po. Ecco spiegato il “mistero” perché a Modena si trovino oggetti provenienti da Vejo.
Nell’ottobre 2001, nelle vesti di Segretario Generale dell’Unione Latina, feci una prima visita alle autorità brasiliane di Rio de Janeiro ed esposi l’idea di offrire al Brasile una catalogazione completa e scientifica della collezione di Teresa Cristina. Ne accennai al professore Luis Fernando Duarte, direttore del Museo Antropologico della Quinta da Boa Vista già residenza estiva dell’Imperatore e ove era stata immagazzinata la collezione. Egli manifestò un tiepido interesse per la nostra proposta di catalogazione ma mise, come condizione preliminare, che l’Unione Latina la restaurasse. Del pari, ci esortò a ottenere dal Ministero di Cultura (sia da quello nazionale che da quello dello Stato di Rio) la dichiarazione di interesse nazionale- culturale per nostro progetto. Sulla base di tale dichiarazione – mi disse – vi sarà poi facile ottenere delle sponsorizzazioni da parte delle imprese italiane presenti in Brasile (Ferrero, Telecom, Parmalat, Pirelli, Fiat, Benetton, ecc.) nonché da alcune fondazioni portoghesi.
Visitai poi accompagnato dalla signora Tania Andrade Lima, curatrice delle collezioni archeologiche, le due sale ove erano esposti alla rinfusa (credo in previsione della mia visita che era stata preceduta, poche settimane prima, da quella del professor Cordischi) alcuni oggetti già dell’Imperatrice. Visitammo anche i magazzini del museo ove erano accatastati centinaia di oggetti sotto polvere e ragnatele. La signora Tania non si mostrò entusiasta del progetto, anzi parve quasi seccata di questa intrusione italiana nel suo regno e affermò, forse giustamente, che il restauro più urgente che si sarebbe dovuto fare era quello alle strutture fatiscenti della Quinta da Boa Vista, restauro di cui ovviamente l’Unione Latina non avrebbe mai potuto accollarsi l’onere finanziario.
Ci recammo infine al Museo Nacional per ammirare il busto di marmo pario di Antinoo: molto bello, anche se danneggiato da incaute donne addette alle pulizie che lo fecero cadere e che venne poi malamente restaurato.
Per accelerare i tempi, e dopo lunghe esitazioni della signora Andrade, si progettò una piccola esposizione di una trentina di oggetti della collezione imperiale da tenersi nel 2005, previo restauro, a spese dell’Unione Latina, di quattro affreschi pompeiani, di alcuni bronzi e terrecotte. I restauri vennero effettuati dal professor Tranchina, reputato restauratore di Modena che si recò a Rio de Janeiro dal 5 al 19 gennaio 2005, per restaurare i quattro affreschi di Pompei; egli venne assistito anche da giovani restauratori brasiliani cui insegnò le tecniche specialissime necessarie per le opere romane. Nel frattempo un noto archeologo francese Henry Lavagne, dell’Académie Française e specialista dell’epoca romana, venne inviato dall’Unione Latina a Rio de Janeiro per studiare la collezione e preparare un piccolo catalogo. Fu così che il professore Lavagne scoprì che gli affreschi sarebbero dovuti essere ben dieci, che alcuni di essi erano arrivati a Rio sulla nave che condusse Teresa Cristina sposa, che due affreschi si erano smarriti nel frattempo, e che almeno due dei superstiti provenivano dal celebre tempio di Iside di Pompei scoperto nel 1765, tempio che era coperto di affreschi, la maggior parte dei quali sono oggi conservati nel Museo Nazionale di Napoli. Oltre agli affreschi il professor Lavagne inserì nel catalogo dei vasi apuli dipinti su fondo nero, delle anfore di bronzo, delle sculture provenienti da Vejo, degli amuleti fallici provenienti da una stipe votiva, sempre da Vejo. E, dulcis in fundo, il magnifico busto di Antinoo.
Preceduta da un notevole “battage” di stampa, radio e televisione, il 12 aprile 2005 venne inaugurata l’esposizione, arricchita da un piccolo ma degno catalogo curato da Lavagne, dal titolo:” Afrescos de Pompeia: a belesa revelada”. Grande fu l’afflusso di pubblico e di autorità (ma la conservatrice del Museo non venne al vernissage!). E mi resi conto che la formula “Pompei e famiglia imperiale del Brasile” evocava ricordi, emozioni e forse rimorsi, tali da assicurare, anche per il futuro, un sicuro successo a iniziative ispirate a questi momenti storici così importanti per la latinità .
Purtroppo, a questo successo di pubblico non fece seguito, in Brasile, un interesse governativo a proseguire il programma di restauro e catalogazione della collezione imperiale. A nulla valsero le nostre continue richieste nelle più svariate sedi di governo e presso fondazioni varie: mi umiliai, andando a chiedere a Rio collaborazione a due ricchissime fondazioni dirette da inflessibili, arcigne dame; andai pure a San Paolo in visita all’algida signora Regina Veinberger, direttrice della Fondazione Vitae. Purtroppo l’attenzione per l’Unione Latina e per la latinità si andava lentamente spegnendo, parallelamente all’eclissi dell’influenza europea e italiana in quel gigante dai piedi di argilla che è il Brasile: a nulla valse rammemorare che l’Unione Latina venne fondata e ideata nel 1946-‘48, proprio grazie a una iniziativa precisa dell’allora Ministro degli Esteri del Brasile Neves da Fontoura, a nulla valsero le iniziative prese in quegli anni dell’Unione Latina a favore della lingua portoghese nei vari paesi lusofoni, non ultimi gli aiuti alla nuova Repubblica indipendente di Timor Est. La creazione a Rio de Janeiro di una fastosa, lussureggiante “Accademia della Latinità ” da parte di uno stravagante miliardario brasiliano illudeva, evidentemente, che la latinità venisse così tutelata e salvata dai pericoli incombenti.
Ma l’Unione Latina non demordeva e non perdeva occasione per ricordare l’impegno a salvare la collezione di Teresa Cristina. Una felice coincidenza si presentò nel 2006 quando l’Unione Latina concesse in Campidoglio il premio “Trofeo Latino” all’archeologo e antico direttore di Pompei il professor Pier Giovanni Guzzo. Alla solenne cerimonia era presente anche l’allora Ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli, persona colta, sensibile e già ottimo sindaco di Roma. Rutelli, durante il suo mandato in Campidoglio, molto operò per la salvezza dei terreni di Vejo e li salvò dagli occhi bramosi della speculazione edilizia. Nel mio discorso, che accompagnava la consegna del Trionfo Latino (una bella scultura del giovane artista Giuseppe Ducrot) ricordai quanto l’Unione Latina avesse fatto e avesse in animo di concludere per la salvezza della collezione dell’Imperatrice. L’onorevole Rutelli ascoltò con vivo interesse, ci chiese documentazione e promise il suo concreto intervento in cambio di una futura esposizione a Roma dei reperti di Vejo, restaurati e catalogati. Fu un momento di grande speranza ma, purtroppo, pochi mesi dopo (maggio 2008) cadde il governo e Rutelli non fu più il Ministro dei Beni Culturali.
L’oblio ricoprì così un’altra volta il nostro progetto. Invano tentai di coinvolgere il Ministero degli Esteri, l’Istituto Italo Latino Americano, la nostra Ambasciata a Brasilia, le Regioni Lazio e Campania e l’Unesco: si tenne a Parigi anche una riunione su eventuali iniziative da condurre congiuntamente tra Unione Latina e Unesco; riunione sterile che si concluse con un nulla di fatto per i continui ostacoli frapposti ai progetti dalla burocrazia Unesco, la più inutile mai incontrata.
Si ebbe infine negli ultimi mesi del 2008 l’inizio di un progetto per il restauro, almeno, del busto di Antinoo e si vagheggiava di presentare il busto restaurato nel Palazzo del Quirinale in occasione dell’imminente visita ufficiale a Roma del Presidente della Repubblica del Brasile, Luiz Lula da Silva. Partì per Rio, in missione esplorativa, la dottoressa Antonella Basile dell’Ufficio Centrale del Restauro. Venne esaminato il busto e si decise di togliere le rozze tracce delle riparazioni casalinghe, tentate dopo che il povero “favorito di Adriano” cadde dal suo piedistallo. Ma poi il restauro – che presupponeva il viaggio in Italia del busto – non ebbe più seguito: nessuno volle assumersi le spese del viaggio della scultura. Nel gennaio 2009 io lasciai l’Unione Latina per fine mandato, e tutto venne paralizzato: al mio successore di queste attività culturali non importava granché; men che meno all’Ambasciata del Brasile a Roma. Ne seguì, secondo regole secolari, la “damnatio memoriae” e il consueto abbandono dei progetti ideati dai predecessori. E della collezione imperiale non se ne parlò più.
Ma il Destino attendeva in agguato e volle punire la negligenza, il disinteresse, l’ingratitudine: la notte del 2 settembre 2018 un incendio furioso, alimentato da un vento fortissimo, distrusse, in un rogo immane, la Quinta da Boa Vista: tutta, dicesi tutta la collezione dell’Imperatrice venne ridotta in cenere. Si salvò solo il busto di Antinoo che l’Imperatrice aveva destinato, fortunatamente, nel 1888 all’Academia de Bellas Artes. E si salvarono i reperti di Vejo finiti al Museo di Modena e quelli provenienti dal Château d’Eu della famiglia Orléans e recentemente acquistati dal Museo del Louvre ad un’asta tenutasi al Casinò di Enghien per conto delle ormai lontane eredi di Teresa Cristina.
Requiem quindi per una collezione che era la più bella, la più folta di archeologia greco-romana di tutto il continente americano: è stato questo un altro “segno” della declinante latinità in America Latina, declino tenacemente sperato, desiderato e perseguito da Washington? Gennaio 2024
Gennaio 2024