Memorie
Diario Africano
di Francesco Mezzalama
Aprile 1994
Etiopia
C’è anche una ragione sentimentale che mi ha spinto ad approfittare del lavoro per visitare l’Etiopia.
Anno 1936 – Invasione e conquista dell’Abissinia da parte dell’Italia. Sono in prima ginnasio e in classe appendiamo una grande carta di quel paese. Ogni mattina, man mano che giungono le notizie delle operazioni militari, puntiamo delle bandierine tricolori sulle località conquistate. Adua scatena la vecchia, storica ruggine di una sconfitta non digerita. Ora finalmente l’onta è cancellata. La mobilitazione, l’entusiasmo popolare che accompagnano la campagna etiopica sono ancora vivissimi nella mia memoria. Ci sono anche le canzoni che la radio trasmette in continuazione e tutti cantano per le strade. Anche noi quando andiamo in divisa da balilla all’adunata del sabato fascista. “ Faccetta nera, bell’abissina …etc.” è ancora ricordata ai giorni nostri. Ma pochi rammentano “Adua è liberata, è ritornata a noi; Adua riconquistata risorgono gli eroi. Va, la vita va, tutto il mondo sa. Adua è conquistata,è ritornata a noi”.E’ con questa memoria storica della “Rinascita dell’Impero sui colli fatali diRoma” (discorso di Mussolini del 9 maggio 1936) che mi accingo a vedere sul posto una realtà che avevo soltanto immaginato da ragazzo e che aveva acceso le fantasie di quelli della mia generazione. C’era anche una componente salgariana: l’avventura nell’Africa nera.
Imbarco sull’ Ethiopian Airlines con Elena e i miei due collaboratori della Joint Inspection Unit delle Nazioni Unite: una è etiope, la Signora Seble (Sibilla), uno splendido esemplare della razza abissina che aveva al femminile sedotto tanti italiani, i legionari, inviati alla conquista di Addis Abeba e l’altro è danese
Volo comodo, circa otto ore, senza scalo e sbarchiamo verso le 22 locali all’aeroporto di Bole. Nonostante l’austerità dei luoghi, accentuata forse anche dalla notte, l’accoglienza è cordiale. L’Ambasciatore Melani ha offerto a me e Elena di ospitarci in Ambasciata e manda l’autista a prelevarci. Partiamo e percorriamo strade semibuie, abbastanza dissestate. Poca gente in giro, ma già molta miseria visibile. La residenza è un’isola felice. Gode del resto agli Esteri di una ben nota reputazione per sorgere nel mezzo di una estesa proprietà con boschi di eucaliptus, fiori a profusione, maneggio con cavalli. E l’aspettativa si conferma. Luogo stupendo, accoglienza cordiale. La coppia Melani è molto simpatica. Scopriamo che il figlio è stato compagno di scuola di Paolo. Pianifichiamo il programma. Il week-end, come previsto, ci consente una intensa, concentrata esplorazione al nord del Paese (Lago Tana e dintorni e Lalibela ). L’Ambasciata ha organizzato la spedizione. Vengono anche l’etiope, eccitata di vedere luoghi di casa sua mai visitati e il danese.
A letto senza cena (l’ aereo è alquanto disorganizzato, ha servito solo il “lunch”, inutile data l’ora della partenza) e prepariamo bagagli leggeri a mano per la sopravvivenza di tre giorni. Si sa che sarà un’avventura.
8 Aprile
Ritorno al mattino all’aeroporto per volare a Bahar Dar, capoluogo sul Lago Tana (significa “apertura sul mare” in amarico). Ed in effetti, data la sua dimensione, può ben apparire un mare. Arriviamo dopo due ore di volo a quello che era un aeroporto. Oggi la stazione è uno scheletro demolito dalla dinamite. Qui ha infierito per anni la guerriglia contro Menghistu e solo dal 1991 è possibile rivisitare questi luoghi rimasti “off limits” a lungo. In mancanza di attrezzature, si fa la fila all’aperto vicino a una baracca. I controlli polizieschi sono ovunque molto stretti. Dicono di temere atti di terrorismo e dirottamenti. L’Etiopia è in regime speciale transitorio. A seguito del rovesciamento della dittatura comunista e si spera che dopo le ormai prossime elezioni, la situazione si normalizzi.
Espletate le formalità, saliamo su un autobus che ci porta in albergo a Bahar Dar (Hotel Tana ), cittadina polverosa ma con qualche civetteria. Un grande viale alberato, il lago Tana sullo sfondo. E’ una distesa grigioverde, si intravedono alcune isole che costellano le acque. Ospitano antichi conventi copti, alcuni pregevoli con tombe reali, ma come al Monte Athos sono proibiti alle femmine, animali inclusi. Rinunziamo a visitarle e scegliamo di andare alle sorgenti del Nilo Azzurro (affluente del Nilo grande nel quale si getta a Khartum) che escono dal Tana. La strada, un paio d’ore, è sterrata. E come constateremo durante tutto il viaggio in altre occasioni, molto animata da gente che va e viene a piedi, anche per lunghi tratti, tutti scalzi, gli uomini con un bastone a vari usi che viene portato di solito dietro le spalle appoggiandovi sopra le mani. Forse anche per questo gli abitanti sono così dritti, niente scogliosi. Il loro portamento è certo molto nobile. Si tratta di una bella razza che discenda oppure no dalla Regina di Saba. La leggenda dice infatti che la Regina, originaria dell’Etiopia, (ma gli Yemeniti ne rivendicano a loro volta la paternità) attirata dalla magnificenza che contornava la fama di Salomone, volle conoscere il grande Re. Ricevuta, carica di doni, con la sua dama di compagnia, venne alloggiata a corte, ma richiesta di non uscire dalle stanze. Avendo avuto come cibo alimenti salati (ad arte somministrati), Saba uscì in cerca di acqua con la sua ancella e incappò nel divieto, violato il quale – gli era stato detto – avrebbe corso dei guai. Che non furono poi così sgradevoli se il risultato fu di finire nel letto di Salomone. Nacque dall’unione Menelik fondatore della dinastia che regnò in Etiopia per secoli. Non a caso il Negus era conosciuto come il “Leone di Giuda” e statue di leoni ornano l’ingresso dell’ ex palazzo reale di Addis Abeba (il famoso Ghebì) e alcune piazze e strade della capitale. Uno di essi, il più antico, venne portato a Roma da Mussolini come trofeo di guerra così come l’Obelisco di Axum all’Aventino. Il leone fu poi restituito al Negus dopo la crociata degli italiani, l’obelisco è ancora da noi, invero reclamato, ma un giorno forse sarà restituito.* Per concludere la favola, anche l’ancella restò incinta ad opera di Salomone e nacque Lalibela, altro sovrano fondatore della dinastia che regnò nella città che ancora oggi ha lo stesso nome: sarà la seconda, straordinaria tappa della nostra esplorazione.
Riprendiamo la strada verso le sorgenti del Nilo Azzurro. Dobbiamo fermarci in un villaggio e proseguire a piedi per un lungo tratto. Il sentiero sale e scende abbastanza faticosamente, attraversiamo il Nilo che si è già infilato in una gola rocciosa (ricordo dello Zambesi alle Vittoria Falls ma in dimensioni ridotte
servendoci di un unico, straordinario ponte di pietra che dicono costruito dai portoghesi. Finalmente arriviamo accaldati in vista delle sorgenti. Non è il momento buono perché non è ancora cominciata la stagione delle piogge durante la quale sono molto più imponenti.
L’acqua esce dal lago e precipita per una cinquantina di metri in una spaccatura rocciosa avviandosi poi per la sua strada fino a quando si allargherà a Bahar Dar in una ricca pianura che ammiriamo al ritorno dall’alto di una collina. E’ un tramonto stupendo, africano. Il Nilo serpeggia pigramente tra campi fecondi. Il silenzio è totale, solo gli uccelli rompono la magia con i loro voli e i loro canti. Indugiamo a lungo fino all’imbrunire.
Lontano luccica il Tana e ritorna il ricordo del passato, la conquista dell’Etiopia, il mitico Tana dei legionari italiani e la famosa canzone, un tango che canticchio ogni tanto perché emerge dal fondo dei ricordi:”Sul lago Tana, nell’ombra triste della sera, sentir cantar faccetta nera, è la speranza di chi muor….”.
Ritorniamo in albergo, dopo cena sostiamo in giardino che è al bordo del lago. Si vedono le luci di Bahar Dar che si riflettono nell’acqua. Devo ripetermi, per crederci, che sono finalmente arrivato sulle rive del lago Tana.
9 Aprile
Ci attende il “clou” dell’escursione. La visita alle famose chiese copte scavate in profondità nella roccia. E’ una delle tante immagini più conosciute e riprodotte nei libri di viaggi e di geografia sull’Etiopia. Per arrivarci bisogna raggiungere il villaggio di Lalibela nome grazioso che mi ricorda, chissà perché, le libellule. Il viaggio è avventuroso. Partiamo dall’hotel per l’aeroporto scalcinato di Bahar Dar. Qui attendiamo un areoplanino di pochi posti che ci condurrà allo scalo di Lalibela.
A bordo guardo gli arredi consunti, vedo certe giunture arrugginite delle ali. Ma se si sceglie questo turismo originale, bisogna essere fatalisti. Sorvoliamo un’Etiopia brulla, con una orografia tormentata, montagne intersecate da valloni aridi con poche tracce di acqua. E’ questo il vantaggio dell’aereo ad elica: vola basso e lento e si può ammirare il paesaggio. Malgrado l’impervia natura dei luoghi, ci sono frequentissimi segni di vita umana. Piccoli villaggi di capanne, tre, quattro “tukul” rotondi di paglia, appollaiati sulle cime. Siamo all’età della pietra. Come vivrà questa gente? Mi vien fatto di pensare alla conquista da parte di Mussolini. Come può essere venuto in mente al Duce di imbarcarsi in una simile impresa? Certo non aveva informazioni oneste o la presunzione ha vinto su ogni altra considerazione. Volando sull’Etiopia e visitando il paese, oggi quell’avventura può essere solo definita una follia. Onore alle migliaia di soldati che hanno percorso e conquistato queste gole selvagge con i mezzi dell’epoca, a piedi o a dorso di mulo. Non c’è traccia di strade. Con questi pensieri arriviamo in vista dell’atterraggio. Lalibela è arroccata in montagna e l’aereo deve scendere in basso, in un pianoro fornito di una semplice pista di terra battuta. Guardo invano per trovare i segni di una parvenza di aeroporto. Nulla. Si atterra a pochi metri da una grande acacia ad ombrello, vegetazione così tipica della regione e sotto all’albero c’è lo “scalo”.
A rendere l’atmosfera ancora più irreale scorgiamo un pastore seduto su una pietra che ci accoglie al suono del “masenko”, uno strumento che risale certamente alla notte dei tempi, costruito con una rudimentale cassa armonica coperta di pelle di capra, un manico con una sola corda su cui il suonatore sfrega l’archetto. Il pastore suona la sua nenia e canta. La nostra etiope è come folgorata. Si siede vicino a lui rapita. Mi dice poi che sono canzoni bellissime, che il pastore è un artista. E’ tutto molto affascinante. Ci muoviamo verso il borgo di Lalibela. Su un pullman scassato ci inerpichiamo su una mulattiera dissestata che miracolosamente viene percorsa da un mezzo di trasporto da brivido. Saliamo verticalmente e sul fianco della strada si aprono strapiombi da vertigine. Mezz’ora di questa scalata e arriviamo al paese. Poverissimo, è giorno di mercato e c’è gran folla per le strade. Procediamo a passo d’uomo fino a quello che sarà il nostro albergo, l’Hotel Seven Olives.
E’ tutto estremamente rudimentale, ma in carattere con il paesaggio. Ci troviamo su una montagna contornata da altre montagne, piuttosto brulle, fatte di una pietra color rosato scuro ed è in questa materia prima che sono state scavate le famose chiese copte.
La visita viene organizzata in tre tappe, per gruppi di chiese, raggiungibili attraverso scalette e camminamenti scavati nella roccia. E’ un fenomeno unico, straordinario. Il tetto è a livello del suolo ed è ornato di croce o altro motivo. Si scende per raggiungere l’ingresso dei templi, letteralmente usciti da blocchi monoliti. Dapprima è stato isolato il blocco poi gradualmente svuotato come un guscio per ricavarvi la chiesa con le sue colonne, le navate, gli altari. L’altezza corrisponde a palazzi di almeno tre piani. Poche le aperture, le finestre in alcuni casi recano contorni elaborati ed eleganti, altre sono semplici aperture.
Si entra togliendo le scarpe, come nelle moschee e si scopre un’oscurità mistica a cui l’occhio deve abituarsi a poco a poco per distinguere i capitelli, i cornicioni, qualche affresco primitivo.
Ognuna di esse (sonaro una trentina a Lalibela, ma fuori dal villaggio sui monti ve ne sono altre sparse qua e là) è dedicata alla Madonna, a un Santo (Giorgio, Gabriele Arcangelo qui molto venerato).
Siamo in periodo quesimale copto, tardivo rispetto a quello cattolico e non è ammesso alcun suono, nemmeno quello del “sistrum” o “alleluia”, un curioso strumento con delle rotelle che scorrono su fili fissati su due supporti laterali, a forma di spatola, riccamente traforati. Di solito il “sistrum” è d’argento e il sacerdote lo scuote accompagnando l’incedere con il suo rumore. Scoprirò poi a Roma che già i romani lo conoscevano, è il “sistrum” che venne probabilmente importato dall’Egitto insieme ai riti orientali ed ai culti esoterici.
In alcune chiese il prete attende i fedeli (i locali e qualche raro turista come noi), è vestito di sontuosi e variopinti paramenti e tiene in mano una grande croce infissa in un manico. Sono croci di forme diverse, quella detta di Lalibela è quasi una raggiera allungata.
Mentre ci arrampichiamo su e giù tra i templi ci chiediamo come sia sorto questo fenomeno così curioso e perché proprio qui. L’epoca è intorno al 14° secolo e la storia vuole che sia stato il locale sovrano, dal nome di Lalibela, a dar vita a questo insieme di luoghi di preghiera. C’era al suo tempo l’usanza di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme (ricordiamo i legami della Regina di Saba con Salomone). Lalibela decise di creare sul posto un surrogato costruendo chiese chiamate con i nomi della Terra Santa. Persino il fiumiciattolo che scorre vicino porta il nome di Giordano, così come c’è Betlemme, dove sostano i catecumeni prima del battesimo, o Nazareth . E’ quindi possibile effettuare in piccolo un percorso simile a quello che si faceva in Palestina.
Questa suggestiva versione lascia insoluti vari interrogativi sulla tecnica di costruzione delle chiese, sullo stile delle medesime, si dice influenzate da Axum, l’altro grande polo politico-religioso del nord abissino, con i suoi altrettanto misteriosi obelischi.
Stiamo per ultimare il giro e ci attende un finale a sorpresa: di colpo scoppia un torrenziale temporale e facciamo appena in tempo a ripararci in un cunicolo. Ma l’acqua ingrossa progressivamente i canaletti di scolo e trasforma i sentieri in torrentelli. Ci aggrappiamo alle sporgenze della roccia per sfuggire alla piena. Come Dio vuole passa l’uragano e possiamo uscire e tornare in albergo. Attraversiamo il paese, trasformato in un pantano, (tipici i “tukul” a due piani che si trovano solo qui) ma la gente è allegra perché è piovuto. C’è molta siccità e c’è chi si china sull’acqua fangosa sciacquandosi e rinfrescandosi. La sera incombe, il ristorante (si fa per dire) offre poco o niente e alle 10 tutti a letto perché non essendoci infrastrutture elettriche, il gruppo elettrogeno viene spento durante la notte: resta il lume di candela. Ma la giornata è stata sufficientemente eccitante e faticosa per desiderare solo il sonno.
10 Aprile
Siamo all’ultima giornata dell’escursione. Ripartiamo facendo a ritroso il cammino da Lalibela alla pista di decollo e all’albergo-aeroporto. Davanti all’albergo c’è folla in attesa, vestita con i consueti baraccani bianchi. Si è sparsa la voce che ci sarà distribuzione di farina e a causa della siccità manca il cibo. Il solito autobus scassato ci prende a bordo. La discesa è ancora più allucinante della salita. Se si rompessero i freni…Meglio non pensarci. Una signora italiana, moglie dell’addetto militare ad Addis Abeba, incontrata per caso, ha una crisi di nervi per la paura. Finalmente arriviamo in pianura per apprendere che abbiamo corso il rischio di non partire. La pioggia di ieri ha bagnato la pista di fango e il decollo diventa problematico. Per fortuna c’è sole caldo e la pista ridiventa agibile.
Aspettiamo con pazienza l’arrivo dell’aeroplanino sostando sotto l’albero. Il pastore ha ripreso a suonare e cantare le sue nenie.
Compare ad un certo punto l’aeroplanino, saliamo a bordo e decolliamo. Dobbiamo tornare a Bahar Dar con fermata a Gondar per riprendere un altro aereo per Addis Abeba.
Il volo basso ci permette di ammirare il paesaggio, sempre impervio e brullo. Il pilota sente la nostra lingua e ci parla in italiano. A titolo di cortesia sorvolerà Axum per mostrarci la città ed i famosi obelischi, “come quello che avete a Roma”, osserva. Si vedono benissimo, sulla piazza presso la Cattedrale, alcuni in piedi, altri coricati. E’ emozionante collegarsi in spirito con l’Aventino.
Il pilota ci riserva una seconda sorpresa: vuol farci vedere dall’alto la strada costruita dagli italiani per collegare Axum a Gondar.
E’ un’opera da capogiro. Supera duemila metri di dislivello senza una galleria, ma con continuo giro di curve. Si vedono i camion che la percorrono, resta a tutt’oggi l’unica arteria che collega due province del nord, altrimenti isolate.
Atterriamo a Gondar e scopriamo di avere la possibilità, considerata la sosta, di raggiungere la città e visitare i famosi castelli portoghesi. Un taxi scassatissimo ci porta mostrandoci cose fatte dagli italiani, le caserme lasciate dagli italiani, il centro con l’ex casa del fascio e altri edifici di tipica architettura anni quaranta, chiamiamolo “stile fascista” per intenderci.
Le rovine dei castelli di Gondar lasciano senza fiato. E’ un’altra incredibile storia abissina. Un re della dinastia Fasilides, certo molto potente, erige nel 1700 questo insieme fortificato, tutto in pietra, protetto da muraglioni. All’interno palazzi di varie dimensioni, per sé e per i successori, oggi vuoti ma ancora ben conservati, Lo stile è unico, non ha nulla a che vedere con l’architettura locale. C’è chi parla di architetti egiziani, chi di portoghesi. Ma comunque sia, è un complesso imponente e originalissimo.
Riprendiamo l’aereo sorvolando i castelli per un ultimo colpo d’occhio e poi via per Bahar Dar. Ci accoglie nuovamente il lago Tana, le sue isole boscose ed i conventi immersi nel verde. Abbiamo veramente fatto il “pieno” e non ci molesta l’attesa all’aeroporto fantasma per tornare alla capitale.
Domani si comincia a lavorare.
11-12-13-14-15 Aprile
Una girandola di appuntamenti. Si comincia alle 9 del mattino fino a sera. Esploriamo i vari dipartimenti dell’Economic Commission for Africa (ECA) che hanno a che fare con i nostri studi. E’ un’organizzazione ben installata in edifici funzionali, ormai insufficienti. Sta di fatto sorgendo, dopo varie polemiche, un nuovo edificio con aula per assemblee. E’ un progetto italiano eseguito da una impresa italiana . E’ una cooperativa emiliana che si è aggiudicata molti lavori in Africa soprattutto durante il periodo della finanza allegra della cooperazione italiana in mani socialiste.
Dirige l’ECA un algerino, Yaker, molto dinamico e volenteroso. Siamo ovunque ben accolti, gli Ispettori non vengono sovente da queste parti.Interessanti anche gli incontri con l’altro importante Ente con sede ad Addis Abeba. l’Organizzazione per l’Unità Africana anche qui contatti interessanti per lo studio sull’assistenza umanitaria e le forze di pace dell’O.N.U.
Molto carinamente il nostro Ambasciatore Melani ci invita ad una cena già organizzata e poi ad una colazione in giardino con i funzionari incontrati nei nostri contatti. Il tutto molto bene allestito e piacevole.
Nelle serate libere ci guardiamo alcune cassette di un programma proposto dalla nostra televisione anni fa sulla conquista dell’Etiopia nel 1935-1936. L’argomento è stato trattato da Rai 1 e Rai 2, in maniera più serena il primo programma, autolesionista e polemico il secondo. Ma ne esce un quadro interessante fatto con spezzoni di giornali luce dell’epoca, interviste a storici e a sopravvissuti (il Ministro delle Colonie di quel periodo). Va dato atto che, pur nella follia mussoliniana, l’impegno italiano è stato gigantesco ed eccezionale. Sorvolando e viaggiando per questo paese impressiona come una presenza italiana così breve (dal 1936 al 1941) abbia lasciato tracce durature e ancora ben visibili. Ad Addis Abeba l’impianto urbanistico è quello italiano, così come alcuni degli edifici che si distinguono dall’insieme squallido e miserabile della città.
Uno dei momenti del passato che volevo rivivere era l’annuncio da parte del Duce dal balcone di Palazzo Venezia della fine della guerra. Mi ha dato un fremito di emozione ascoltare quella voce ( anche noi ragazzini in divisa da balilla eravamo nella piazza principale di Vercelli per lo storico annunzio). Ricordo benissimo l’inizio del discorso: “Il Maresciallo Badoglio telegrafa: oggi alle ore 16 alla testa delle truppe italiane sono entrato in Addis Abeba”. L’Italia era veramente tutta in preda all’entusiasmo.
Brutte, bruttissime invece le pagine del periodo Graziani, Vice-Re di Etiopia, con repressioni, impiccagioni, esecuzioni in massa contro una resistenza abissina mai domata. Tanto che fu poi sostituito dal Duca d’Aosta, ma ormai la seconda guerra mondiale stava travolgendo l’effimero impero, primo atto di una tragica sconfitta.
KENIA
16 Aprile
Chiudiamo il capitolo etiopico e apriamo quello keniota. Partiamo per Nairobi dove arriviamo nel primo pomeriggio, in tempo per una visita al Parco Nazionale che è alle porte della città. E’ un tuffo nelle contraddizioni dell’Africa. Si vedono gli edifici della capitale a un tiro di schioppo, ma noi scorazziamo tra giraffe, antilopi, una marea di uccelli colorati e, per finire in bellezza, ci imbattiamo in un magnifico esemplare di leone giovane, ampiamente fotografato.
Colpisce la profusione di fiori e quel carattere britannico, ben poco africano, che caratterizza Nairobi. Rispetto ad altre capitali africane e della stessa AddisAbeba la differenza è abissale. Ma anche qui mi dicono che la situazione è in deterioramento e il futuro incerto. Godiamoci intanto questo paradiso terrestre ed il suo fascino.
17 Aprile
Essendo domenica possiamo permetterci il lusso di una gita nei dintorni. Il Consigliere d’Ambasciata Giovanni Brauzzi propone la strada verso i laghi del nord che costeggia il famoso “rift” africano, una spaccatura geologica che percorre il continente da nord a sud. Qui sono state trovate le tracce più antiche dell’uomo.
Meta è il lago di Nakuru, famoso per le migliaia di “flamands rose”che coprono letteralmente le sue acque. Ma apprendiamo con disappunto che i mitici uccelli rosa non abitano più lì. Le acque sono state inquinate dalle fogne della città omonima con la conseguente fuga degli uccelli.
Fortunatamente deviando a caso verso un altro lago vicino, quello di Naivash, scopriamo una foltissima colonia di uccelli e così la nostra curiosità non va delusa, nonostante una inopportuna foratura di gomma che ci pone qualche problema. Ma lo superiamo grazie all’intraprendenza di alcuni locali.
Procediamo verso un noto club inglese che ha conservato tutto il carattere “british” dell’Impero. E’ un’isola irreale, sarebbe il rifugio ideale per alcuni giorni di riposo e distensione.
Non possiamo permetterci questo lusso, ci limitiamo ad un fugace “bird watching” divertiti da strani uccelli gialli che si aggrappano con la testa all’ingiù.
Sulla strada del ritorno ammiriamo un tramonto drammatico, grandi nubi corrono per il cielo azzurro, in lontananza il perfetto profilo di un grande vulcano spento. L’immensità africana ci soggioga.
18-19-20 Aprile
Tre giorni di intensi contatti con l’ONU dell’ambiente e dell’habitat, molto interessante. Parliamo anche con il responsabile di un ufficio somalo qui trasferitosi da Mogadiscio dopo il caos predominante. Ci descrive una situazione allarmante, sulla quale si innestano le terribili notizie dei massacri del Ruanda. I “caschi blu” stanno ripiegando da Kigali, è troppo pericoloso di fronte alla bestialità selvaggia delle rivalità tribali. Giorni dopo ascolto a Ginevra il commento idiota di una giornalista televisiva italiana che parla di un’altra brutta pagina nella storia dell’ONU. E’ anche un’altra brutta pagina della storia dell’Africa.
Sulla Somalia riceviamo un “briefing” di prima mano dal nostro rappresentante a Mogadiscio, che ha lasciato definitivamente la Somalia. Il suo giudizio non ammette equivoci: si scanneranno tra di loro per accaparrarsi posizioni di forza e poi magari cercheranno di accordarsi. Ma per ora non si vede alcuna uscita dal tunnel. Tutto questo si dice e si commenta nella luce filtrata di un club inglese che almeno qui si mantiene e offre rifugi gradevoli. Eppure anche in Somalia , anche in Ruanda si potrebbe stare bene solo che gli africani non fossero così distruttivi. Il bilancio che anche dai nostri contatti traiamo è sconsolante. L’Africa è il continente che ha ricevuto in assoluto la più copiscua massa di aiuti. Ma invece di decollare come avvenuto in Asia, o America Latina si trova con una ricchezza del 20% al di sotto di quella esistente negli anni ’70. E’ una crisi profonda che non legittima alcuna speranza.
Mentre sto pianificando l’ultima tappa della missione in Mozambico, Elena rincorre e realizza il suo sogno di tornare dove era stata 25 anni fa, nella Missione della Consolata a Wamba.
La capisco. Abbiamo tutti bisogno di pellegrinaggi sentimentali. All’epoca ci conoscevamo da poco e l’annunzio della partenza per il Kenia mi impressionò profondamente. Ma amò moltissimo quell’esperienza ed ora la vuole ripetere anche solo per pochi giorni. Trova un missionario comboniano che va a Wamba con una camionetta e s’infila anche lei. Ha già fatto quella strada, si sente tranquilla.
Ci separiamo dandoci appuntamento all’aeroporto di Nairobi sabato notte, 25 aprile, per imbarcarci sull’Alitalia diretta a Roma. Ma la precarietà africana sconvolge i piani ed io rimarrò “grounded” a Maputo per un’intera giornata.
Lei intanto vivrà la sua avventura con un ritorno da Wamba piuttosto movimentato a causa delle piogge che hanno trasformato la strada in torrente.
MOZAMBICO
20 Aprile 1994
Comincia la terza e più imprevedibile parte di questa avventura africana. Già la stessa compagnia aerea che ci deve traghettare da Nairobi a Maputo è un mezzo enigma:Royal Swaziland Airlines.
Intanto scopro l’esistenza di questo fantomatico regno che sulla carta appare schiacciato fra Sud-Africa e Mozambico. La Capitale? MBAAMANE: sentito mai? Per ricordarla bisogna pensare alle banane. Scoviamo finalmente la sede della Compagnia in un grande building di Nairobi. Ci assicurano che tutto è in ordine, trovarsi all’aeroporto con due ore di anticipo. Ci atteniamo alle istruzioni e con l’ assistente danese restiamo gradevolmente sorpresi che si parta in orario. L’aereo è quasi nuovo, sarà un po’ un viaggio spezzettato con tappa in Swaziland, Daar es Salaam (Tanzania) e Maputo. Ci sistemiamo a bordo e dopo il decollo la voce garbata di una hostess saluta i passeggeri iniziando:”His Majesty the King of Uganda, the distinguished royal entourage, ladies and gentlemen”. Faccio un salto sulla poltrona malgrado la cintura: da quando in qua c’è un re in Uganda? Quello stato è una repubblica e abbiamo appena incontrato il nostro Ambasciatore a Kampala reduce dal Ruanda dove è andato in missione d’emergenza per salvare gli italiani dal massacro. Misteri africani: aspetto incuriosito di vedere lo spettacolo quando raggiungiamo l’aeroporto (si chiama Manzini) che è parecchio lontano dalla capitale. L’aereo sorvola basso un paese collinoso, ben coltivato a terrazze con acque scorrenti. Ricorda certe zone del Sudafrica. Siamo pregati di non muoverci e di lasciar scendere “His Majesty”. Vediamo così la messa in scena a terra dove un negrone, contornato da altri negroni, attende l’ospite d’onore. Questi scende, adornato come i suoi seguaci (è probabilmente un capo tribù), con un pareo bianco su cui ha infilato una giacca occidentale a doppio petto: è il simbolo della confusione africana: la Regina (penso sia lei), un donnone vestito di cotone a colori blu-azzurro, con un sederone immenso segue a ruota, riceve fiori e inchini, bambini sventolano bandierine, poi s’infilano tutti nelle limousines ufficiali e scompaiono fra le colline.
Riprendiamo il viaggio senza carico reale (ecco perché l’aereo è così nuovo) verso Dar es Salaam. Sorvoliamo un pezzo di Tanzania ma all’aeroporto non ci fanno scendere e atterriamo finalmente a Maputo.
Qui lo squallore è predominante. Fa caldo, ci guardiamo attorno smarriti, poi compare una pakistana in sari, Rubina Khan è il suo nome. Sarà il nostro angelo custode per tutto il viaggio, brava ed efficiente.
All’ultimo momento si presenta anche un giovane diplomatico dell’Ambasciata Italiana. Partiamo per la città verso l’albergo. E’ la strada di tutti i paesi sottosviluppati, piena di buche, allineata qua e là di catapecchie. Ma la città è bellina, i portoghesi hanno pianificato strade ampie e alberate, c’è un centro commerciale con palazzi moderni a più piani. E poi, il che non guasta, le strade sono pulite. Insomma rimane la disciplina del colonizzatore, malgrado dieci anni di guerra civile. A proposito, sono esattamente vent’anni che la rivoluzione portoghese detta dei “garofani”perché i militari che l’hanno provocata anziché sparare infilarono un garofano nella canna del fucile) ha rovesciato la dittatura fascistoide di Salazar durata ben quarant’anni. E il movimento è partito proprio dalle colonie che Lisbona non voleva mollare; come l’Algeria, Angola e Mozambico, erano divenute “province” del Portogallo che negava di avere colonie.
Ma nel 1974 crollò tutto, i portoghesi abbandonarono precipitosamente l’Africa e cominciarono i guai. Contro Lisbona infatti si era formato, finanziato da Mosca, un movimento mozambicano di liberazione di lotta per l’indipendenza, il FRE(nte) LI(berazione) MO(zambicano) che prese il potere. Mosca presentò il conto e Maputo divenne la capitale di un paese a regime comunista. L’Occidente cercò di contrastarlo e cominciò ad appoggiare, con l’aiuto del Sudafrica, un altro movimento anti-comunista: la RE(novacion) NA(tional) MO(zambicana). Morale: dieci anni di guerra civile che hanno praticamente distrutto il paese. Crollata l’URSS, si sono create le premesse per una pacificazione. E chi ha avvicinato le parti per una tregua? La Comunità di SantEgidio; l’accordo tra FRELIMO e RENAMO è stato infatti firmato a Roma con il patronato dell’Italia. Su questo sfondo si colloca l’intervento dell’ONU, oggi impegnato a garantire la tregua con l’apporto dei “Caschi bleu” (italiani, africani vari, portoghesi, latino-americani) e ad organizzare le prime elezioni previste per l’ottobre prossimo.
21 Aprile
Comincia il programma della nostra visita, intensissimo. Rubina non lascia uno spazio libero. Cominciamo alle 8 del mattino e tiriamo avanti fino a sera. Abbiamo un “briefing” da parte del rappresentante delle Nazioni Unite, che è il responsabile – molto bravo – di tutta questa complessa organizzazione. E’ una vecchia conoscenza, un italiano, già deputato radicale, poi passato ai socialisti e candidato senza successo alle elezioni degli anni ottanta; Come contentino venne poi sistemato all’ONU e dal 1993 è aprodato in Mozambico per gestire l’operazione elettorale. Ajello mi spiega il meccanismo che è una cosa molto seria: bisogna che la sfida riesca, se non altro per l’impegno di tutta questa gente che ci crede e lavora giorno e notte in condizioni di grande difficoltà, manca tutto, non funziona più nulla e solo il venir meno del sistema comunista comincia a favorire qualche timido segno di ripresa. Ne è l’esempio il nostro albergo. Era la sede di un gigantesco centro di attività di controllo del Mozambico da parte dell’URSS. I Sovietici l’hanno abbandonato, i sudafricani l’hanno rilevato e trasformato in hotel. Il piano dell’ONU prevede la graduale smobilitazione dei militari del FRELIMO e dei guerriglieri della RENAMO in modo che le nuove forze armate passino da circa 60.000 attuali a circa 15.000. Per invogliare a deporre le armi, vengono offerte a chi accetta di tornare alla vita civile tre settimane di scorte di cibo, due mesi di anticipo di una buonuscita biennale, una scorta di sementi per ricominciare a produrre. Perché il paese ha cessato di lavorare, la gente è scappata dai villaggi a causa della guerriglia, i militari hanno disseminato le campagne di mine antiuomo (si calcola un paio di milioni) e c’è una gran fame.
La principale specialità del Mozambico erano le noci di anacardio delizia dei nostri cocktails. Ora l’80% delle piantagioni (si tratta di alberi) è distrutto. Continuiamo i contatti e il quadro diventa sempre più interessante e anche inquietante. C’è da togliersi tanto di cappello. Altroche crisi delle Nazioni Unite. I nostri scribacchini e non solo i nostri, che riempiono i giornali di pressapochismo, dovrebbero venire qui a vedere come si lavora. Certo uno si chiede: ma questa gente cosa sa di democrazia. A ottobre sarà chiamata a votare, sono svariati milioni, a settembre comincia la campagna elettorale in tutto il paese, bisognerà garantire un minimo di sicurezza e di correttezza nei seggi elettorali, con osservatori sparsi in tutto il paese, sei volte l’Italia, e come l’Italia allungato per migliaia di km. Roba da far tremare le vene dei polsi. Eppure si va avanti con decisione. Anche solo il problema dello sminamento è un rompicapo. La gente è costretta a muoversi con grande cautela, appena fuori dalle piste principali rischia di saltare per aria.
E’ in corso un progetto ONU per insegnare agli smobilitati come neutralizzare le mine. Così avranno un lavoro e poi sanno come sono state messe e dove e possono intervenire. E’ una delle tante idee intelligenti.
Torniamo in albergo alle 8 di sera e ci accorgiamo di aver scoperto una realtà ed una dimensione sconosciute. Peccato che in Occidente se ne parli così poco. Evidentemente Berlusconi e Pannella fanno notizia, il Mozambico no.
22 Aprile
Per iniziativa di Ajello, bisogna visitare la provincia, vedere quello che avviene a mille km da Maputo. Andiamo a Beira, la seconda città del paese il quale ai fini del presidio da parte delle forze dell’ONU è diviso in tre zone: sud (Maputo), centro (Beira), nord (Napula).
Il centro è presidiato dal contingente italiano, meglio era presidiato. I nostri stanno rientrando ci sono stati gli alpini della Taurinense e poi quelli della Julia. Circa mille uomini per ciascun turno, tutti attendati fuori della città. La partenza è antelucana. Per fortuna che Ajello, anziché mandarci con un vecchio aereo russo “Antonov” di sospetta sicurezza (e l’idea mi faceva un po’ paura) ci mette a disposizione un piccolo “jet” più veloce e più affidabile. Dopo un’ora di volo atterriamo a Beira. Osservo il paese dall’alto. Seguiamo la costa che deve essere un paradiso. Km e km di spiagge intatte,isole vergini come al momento della creazione. Se tanto quanto questo paese si normalizzasse, sarebbero nuove Maldive, nuove Seychelle tutte da scoprire. Mi dicono che i sudafricani sono pronti ad intervenire per iniziative turistiche alla grande. Prenotiamoci per una vacanza!
All’aeroporto di Beira ci accoglie il Generale italiano Mazzarolli che comanda il corpo dei nostri alpini. Mi dice meraviglie di questi ragazzi che appena lasciano la mamma, la famiglia, l’oziosa vita di caserma si trasformano. E’ un’esperienza straordinaria. Il loro compito è soprattutto il pattugliamento lungo la sola ferrovia che consente allo Zimbabue di avere un contatto col mare.
E’ un legame indispensabile anche perché un oleodotto e una carrozzabile corrono paralleli alla ferrovia. Non ci sono mai state complicazioni e la tregua ha retto. Il Generale è soddisfatto e si rammarica che l’Italia esca di scena dopo aver tenuto a battesimo l’operazione Mozambico.
Ma la nostra situazione interna non consente di prolungare oltre lo sforzo anche finanziario (fin ora è costato 800 miliardi e tutto l’ ONUMOZ costa un milione di dollari al giorno).
Anche all’Onu di Maputo dispiace che gli italiani sbaracchino. Tra l’altro hanno messo su un ospedale modello che è l’unico funzionante in tutto il paese con attrezzature per ogni evenienza. E in tutta la zona ha avuto enorme successo. Ma questo rammarico è per fortuna in parte almeno passeggero. Il tempo di arrivare a Beira per apprendere che c’è stato il contrordine. L’ospedale resterà e si sposterà più vicino all’aeroporto, anche per ragioni di logistica e di sicurezza visto che non vi saranno più nella zona gli alpini. Il posto degli italiani sarà preso da un contingente del Botswana.
Credevo di tornare a Maputo dopo questi incontri. E invece mi vogliono far vedere sul campo come avviene il disarmo dei guerriglieri.
Con un piccolo aereo andiamo in una località in piena boscaglia (atterraggio su terra battuta) chiamata pittorescamente Casabanana. E’ un nome storico per il processo di pace. Qui infatti c’era il quartier generale della Renamo durante la guerra civile. Ora attorno ad un villaggio di capanne di paglia con una vita da età della pietra è sorto uno dei centri di disarmo dei combattenti (ve ne sono 49 di queste “ assemblies”, come vengono chiamate, disseminate in tutto il paese). Ci accoglie un militare svedese dell’ONU, biondissimo. Ve lo immaginate uno svedese in questo ambiente? Miracoli delle Nazioni Unite! E’ lui che coadiuvato da personale dell’ONU e da rappresentanti mozambicani riceve i militari che consegnano le armi. Queste vengono stoccate e trasferite in centri sorvegliati dai “caschi blu”. Agli smobilitati viene dato alloggio provvisorio sul campo in attesa di smistamento verso i villaggi di origine con il bagaglio previsto di cibo, soldi, sementi in modo da facilitare il loro inserimento nella vita civile. Stamani se ne sono presentati 39. Nell’accampamento ve ne sono circa ottocento. Ogni tanto c’è qualche tafferuglio, ma la situazione mi dicono essere ovunque sotto controllo.
Le operazioni sono dappertutto in corso e le ultime statistiche a livello nazionale indicano una smobilitazione nell’ordine di undicimila unità. Si è quindi al di sotto delle previsioni. Da qui a settembre, inizio della campagna elettorale, l’operazione dovrebbe essere conclusa. Mancano ancora alcune decine di migliaia di presenze, ma è difficile calcolare quanti in definitiva accetteranno la smilitarizzazione. E tutto in Africa è approssimativo. Si tratta di una sfida, di un gioco d’azzardo e si spera che riesca. E’ andata male in Somalia, ma bene in Cambogia. E perché non dovrebbe riuscire in Mozambico?
Con queste riflessioni rientriamo a Beira. Mangiamo sul terrazzo di un ex-albergo, ora quartier generale dei “berretti blu”, dei gamberoni allo spiedo che qui abbondano insieme alle aragoste. Mi dice il Generale italiano: su questo terrazzo c’è stata la festa d’addio per la partenza della prima metà del nostro contingente ed è su di esso che la stampa italiana si è sbizzarrita a ricamare sulla presenza di alcune minorenni locali indicate come prostitute. E’ una storia che al Generale non va giù e che ha rischiato di stingere negativamente sui nostri soldati che hanno fatto un eccellente lavoro, rispetto ai tanti altri contingenti qui presenti.
C’è sempre qualcuno che si assume il ruolo di guastafeste. In questo caso si è trattato di una vecchia zitella norvegese a caccia di sensazionalità. Rientriamo a Maputo avvolti da un tipico tramonto africano rosso fuoco.
23 Aprile
E’ finita l’avventura o almeno dovrebbe. Siamo all’aeroporto di Maputo di prima mattina. La solita Swaziland Airlines è attesa verso mezzogiorno per portarmi a Nairobi. A mezzanotte imbarco su Alitalia per Roma. Elena che è rimasta in Kenia mi attende all’aeroporto. Passano le ore. Dell’aereo nessuna traccia e comincia l’ansia di non riuscire ad arrivare a Nairobi per la coincidenza. Sono in attesa da 12 ore senza poter uscire dall’aeroporto e senza che qualcuno sia in grado di dirci cosa succederà. Poi l’annunzio che la “Royal Swazi”, ora ben poco reale, ha cancellato il volo. E già; non sono il “Re” dell’Uganda. Solo verso le 21 arriva un fantomatico rottame della Zambia Airways proveniente da Gedda che ci prende a bordo diretto a Daar el Salam e, si spera, a Nairobi. Ma ormai la coincidenza con l’Alitalia è giocata. Sull’aereo passeggiano su sedili e “plateaux” della cena gli scarafaggi mi ero scordato dell’Africa.
Veniamo scaricati a Nairobi alle quattro del mattino. Mi salva un volo della Swisseair diretto in tarda mattinata a Zurigo che atterra nella civiltà in serata, in tempo per proseguire per Ginevra. Non chiudo occhio da 36 ore, ma la visione del paesaggio svizzero, dell’aeroporto perfetto tra campi di colza in fiore e dolci colline fa apparire lontana l’avventura africana. Ma guarda! A Ginevra piove, che meraviglia. Ricomincia la monotona, ma tutt’altro che sgradevole serenità della vita ginevrina.