Memorie
Brevi racconti di un diplomatico
di Vittorio Pennarola
UNA SPIA GIOVANE E BELLA
Era una ragazza di Praga. In verità non era proprio una spia, ma giovane e carina, questo sì. In qualche modo, era stata “reclutata” come altre giovani di buona educazione provenienti da famiglie perbene che, di loro iniziativa, non si sarebbero mai sognate di intraprendere un mestiere tanto difficile e anche rischioso. Di solito venivano scelte dai Servizi segreti cecoslovacchi proprio per la loro educazione e il loro aspetto, non troppo appariscente, che non rivelava volgarità o immoralità.
Se poi conoscevano qualche lingua straniera, il pericolo di essere avvicinate e “arruolate” aumentava. E, una volta entrate nel meccanismo, non potevano più venirne fuori: erano facilmente ricattate in vari modi ed erano costrette a continuare l’attività che era stata scelta per loro (spesso anche all’insaputa delle loro famiglie) e che possiamo anche chiamare di spionaggio.
Ho avuto un racconto dettagliato di questa storia, che ebbe inizio quasi un anno prima dell’invasione militare della Cecoslovacchia, soltanto quando era ormai terminata.
Era il tempo in cui gli Addetti militari, specialmente dei paesi occidentali, erano molto impegnati nel loro lavoro e ciascuno di essi disponeva di un Ufficio, vagamente paragonabile a un “bunker”, di certo difficilmente accessibile e soprattutto a prova di microfoni-spia, più noti come “cimici”. Era lì che si svolgevano riunioni di lavoro in grande riservatezza e si preparavano rapporti confidenziali sugli sviluppi della situazione nel paese.
Anche l’Addetto militare italiano, un colonnello dell’Aeronautica, aveva un suo ufficio ben protetto, nel grande palazzo antico sulla via Nerudova, dove aveva sede l’Ambasciata d’Italia. Per evitare ogni possibile tentativo di penetrazione all’interno della zona riservata, l’accesso ai suoi uffici era sbarrato da una porta, credo blindata, comunque robustissima che veniva attentamente chiusa a chiave con una serratura per quei tempi sofisticata, quando terminava l’orario di lavoro.
Il nostro Addetto militare poteva contare, come suo diretto collaboratore, su un abile sergente, anch’egli dell’Aeronautica, inviato in servizio a Praga, un giovane di piena fiducia, al quale veniva normalmente affidata la responsabilitá delle chiavi al momento della chiusura degli uffici.
Personalmente non saprei dire perché i servizi segreti cecoslovacchi fossero tanto interessati ad entrare proprio nel nostro Ufficio e penso che sarebbero stati molto delusi, perché i codici e i documenti piú riservati erano custoditi in cassaforti di assoluta sicurezza. Ma l’ipotesi più probabile è che volessero soltanto collocare microfoni-spia in qualche punto ben nascosto, se del caso evitando di toccare anche un solo foglio per non destare sospetti.
Ma questa è solo una ipotesi. Sta di fatto – se posso usare un’espressione colorita – che quei signori “sbavavano” per mettere le mani su quelle chiavi, anche solo per pochi minuti, e poterne prendere la forma con cere speciali adatte a riprodurre copie fedeli.
Ora, se il colonnello era felicemente sposato, il sergente suo assistente, custode delle chiavi riservate, era giovane e scapolo. Non occorreva molta immaginazione perché venisse scelto come oggetto delle speciali attenzioni dei servizi d’informazione della capitale..
A quanto pare era un sabato sera, comunque fuori orario d’ufficio, quando il nostro militare, che qui chiameremo per comodità Antonio, era andato a visitare una mostra di quadri. Praga è da sempre conosciuta come una città dall’intensa vita culturale e sono tante le occasioni che si presentano, che prima o poi si finisce con l’essere conquistati. Anche Antonio era stato coinvolto e quella sera, per ammazzare il tempo, aveva deciso di visitare la mostra, inaugurata di recente.
Evidentemente i suoi spostamenti erano ormai attentamente seguiti perchè poco dopo, mentre egli era tutto intento nella sua visita, come per caso entra nella sala una ragazza giovane e carina, di una bellezza non provocante, dall’aspetto curato, un tipo “acqua e sapone” con due grandi occhi azzurri, ma vestita modestamente con un semplice golfino, un po’ stretto, e una corta minigonna, grande moda di quegli anni.
Stranamente la fanciulla sembrava provare grande interesse proprio per i quadri che il sergente si soffermava a guardare. Un poeta avrebbe forse parlato di anime gemelle, di due cuori che battono insieme, di sintonia di sentimenti; solo che, naturalmente, in quel caso si trattava di ben altro.
Ma il nostro Antonio, ignaro di tutto, non era rimasto insensibile al fresco fascino della ragazza; questa, a sua volta ad un certo momento, con aria di non averlo fatto apposta si piazzò quasi davanti al sergente, tra lui e il quadro che egli guardava, spostandosi poi flessuosamente un po’ sulla sinistra, come accorgendosi di aver ostacolato la vista. Ma, come si intuisce, la vista di Antonio era già abbastanza annebbiata per conto suo e con buone ragioni, ora che si trovava lì, ad un braccio di distanza da quella minigonna vertiginosa.
E tutto andò come era stato previsto dagli specialisti cecoslovacchi, sicuramente esperti in tattiche di avvicinamento. Antonio commentò nel suo francese un po’ esitante che quel quadro (un insieme di forme intricate) proprio non riusciva a capirlo. La fanciulla, con un timido sorriso, rispose subito: “Moi non plus”, aggiungendo brevemente che però comprendeva lui. Era fatta.
L’importante era cominciare e ancora più importante era che Antonio avesse preso l’iniziativa per primo. Da cosa nasce cosa, una parola tira l’altra, come le ciliege, ed eccoli insieme.
Antonio non riusciva a credere alla sua fortuna. Certo, era stato fin dall’inizio messo in guardia da possibili approcci di giovani ceche di bella presenza che, una volta fatta amicizia, avrebbero poi cercato di circuirlo in qualche modo. Ma questo caso era sicuramente diverso: una fanciullina così semplice ed evidentemente perbene, che poi non aveva aperto bocca, si era solo limitata a rispondere educatamente e con qualche timidezza ad un suo commento. Seppoi aveva fatto colpo, bene, in fondo non era mica brutto; che ci può essere di male in un incontro fortuito di due giovani, non in un bar o locale notturno, ma attratti da una occasione culturale come una mostra di quadri?
Compatibilmente con gli impegni di lavoro del sergente, le cose andavano a gonfie vele. Non potevano vedersi molto spesso, ma la giovane studentessa, guarda caso, riusciva abbastanza facilmente ad armonizzare i suoi orari con quelli del nostro militare. Una vera fortuna. E Antonio, felice di aver conquistato l’amicizia di una ragazzina così semplice e carina, così disposta a fargli conoscere le bellezze della sua città, approfittava di ogni momento libero per organizzare di tutto.
Andavano in visita ai musei, oppure al cinema insieme; a Praga tutti i films stranieri, compresi quelli italiani, erano proiettati in versione originale, con sottotitoli in ceco. Solo i nomi delle attrici erano storpiati e sui manifesti si annunciavano films con la Lollobrigidova, Sofia Lorenova e, peggio che mai, Jeanne Moreauva. Roba da diventare scemi.
Andavano a cena ogni volta in un posto diverso. Nella birreria più antica della cittá “U Fleku” con pareti di legno intagliato e disegnato in pirografia, dove si beveva solo birra scura e si potevano ordinare pochi piatti sempre uguali; in un’altra, più nuova “U Slateho Tygra” (Alla tigre d’oro) dove si beveva la migliore birra di Pilsen, alla temperatura giusta e si mangiavano specialità squisite come funghi o pezzetti di cervello impanati e fritti; nell’osteria tradizionale “U Kalicha” dove sono ambientati i racconti del “Buon soldato Schweik” e dove si mangiava un eccellente prosciutto cotto, “goulash”, piccolissime pizzette fritte rotonde di patate e altre specialità, accompagnate dalla birra di Pilsen; nelle “Vinarne” (specie di enoteche) dove la birra era bandita, come alla “Rana verde”, che si trovava in una caverna e dove offrivano solo piatti freddi. Ogni sera era un’avventura diversa, il servizio era terribilmente lento, ma si mangiava e beveva bene a prezzi modici (per un italiano in missione).
Era ormai venuto il freddo e ogni volta si dovevano lasciare impermeabili e cappotti al guardaroba. A volte il locale era surriscaldato e conveniva levarsi anche la giacca. Ma mai una volta, una sola, che il nostro sergentino dimenticasse le preziose chiavi nel cappotto. In effetti Antonio, per evitare ogni rischio, le portava sempre con sé in un taschino dei pantaloni, con grande disappunto dei segugi cechi.
Intanto, come era da prevedere, questa bella amicizia tra i due giovani si andava trasformando in qualcosa di più tenero e intimo. Cominciarono a trascorrere le notti assieme, dopo essere stati al varietà a Piazza Venceslao, oppure a ballare come due bravi innamorati alla "Lucerna".
Era il momento magico quando la Cecoslovacchia si risvegliava alla speranza, tutti lavoravano più volentieri, per le strade si sorridevano anche senza motivo, senza sapere il perchè, i giornali uscivano con idee nuove, alla radio si ascoltavano nuove canzoni, si parlava dappertutto del “socialismo dal volto umano” del Primo Ministro Dubcek. Era in pieno svolgimento quella che poi venne chiamata la “Primavera di Praga”.
Nelle loro ore libere, il sergente e la ragazza vivevano intensamente quei giorni di grandi aspettative: lui attento ai suoi doveri, ma per il resto allegro come un ragazzino, mentre lei, ormai innamorata, si faceva a tratti triste e pensierosa, sapendo di dover continuare ad ingannarlo.
Ma anche nei momenti piú felici e spensierati, il nostro bravo militare non dimenticava mai di riporre le chiavi in un luogo sicuro, comunque senza mai perderle d’occhio. Si vede che per lui era diventata un’idea fissa e che almeno per questo aspetto, era ben consapevole dei possibili rischi. Si ebbe in seguito la prova, la conferma della sua fissazione; quando, nell’agosto 1968 terminò bruscamente la primavera di Praga e la città e il paese vennero invasi dalle truppe del Patto di Varsavia, lo chiamarono per telefono, mentre ancora dormiva per avvertirlo: “Antonio, sono entrati i russi”. E la sua pronta reazione: “Non é possibile, ho le chiavi qui”.
Un giorno la sua amichetta gli propose di andare a pattinare sul ghiaccio. Antonio era del tutto inesperto, ma da bambino aveva avuto i pattini a rotelle. Si adattò volentieri, i pattini si potevano prendere in affitto senza problemi e la ragazza, che era molto esperta, lo aiutava, sorreggendolo quando aveva le caviglie indolenzite; dando peró volutamente l’impressione di essere anche lei quasi una principiante o forse di poco più brava di lui. Ma, anche qui, per le chiavi, niente da fare. Antonio le portava sempre indosso.
Finalmente la brava ragazzina, seguendo le istruzioni ricevute, esprime un gran desiderio di andare a nuotare. “Ma come? Con questo freddo?” “Perché no? La piscina è coperta e ben riscaldata, vedrai che ti piacerà”.
Questa volta i preparativi erano stati molto accurati. La soluzione tanto attesa non poteva essere lontana.
Prendere in pochi minuti uno stampo delle chiavi sarebbe stato un gioco da ragazzi.
I giovani arrivano, entrambi di buon umore. Si dirigono agli spogliatoi comuni, ma gli viene offerta una comoda cabina personale, casualmente disponibile. Indossano il costume da bagno e vanno a nuotare.
Subito scatta l’operazione. La cabina viene aperta, vestiti e borse accuratamente frugati. Risultato dell’ispezione: zero. Antonio aveva un bel costume da bagno con apposito taschino a cerniera lampo e aveva portato le sue preziose chiavi a nuotare con sé.
Come è andata a finire? Le truppe del Patto di Varsavia, con tanti carri armati russi, invasero la Cecoslovacchia. Nulla era più come prima; Praga era tutto un fermento. Tutte le strade erano tappezzate di manifesti e scritte, anche in russo, che invitavano i “fratelli” a ritornare a casa. Uno, con la freccia disegnata indicava: “Mosca, 1800 Km.”
A questo punto, che accade alla ragazza ceca? Aveva dovuto recitare la sua parte perchè non poteva rifiutarsi, sapendo che anche la sua famiglia sarebbe stata in pericolo. Ma il suo rapporto non era più soltanto professionale. Da quando si era innamorata del bravo sergente, soffriva molto di essere costretta ad ingannarlo, a tradire la sua fiducia.. Ma non poteva continuare così. Ora poi che con l’invasione tante belle speranze in una vita migliore erano crollate, tramortite dall’impatto con i carri armati e dal ritorno di una classe politica intransigente, non restava che fuggire. Molti, specialmente giovani, scappavano all’estero. In qualche modo riuscì ad arrivare in Italia; ormai non aveva più paura. Erano fuggiti in tanti che quasi non si sarebbe notata la sua scomparsa.
In Italia, si presentò e raccontò tutto, spontaneamente, ai nostri Servizi d’informazione militari. Riferì in dettaglio, a poco a poco, in una serie di amichevoli interrogatori, quanto era a sua conoscenza e tutti i particolari di questa storia. Mi sembra, ma non sono sicuro, che in seguito fu assunta da loro come segretaria e interprete.
Nel frattempo, Antonio restava a Praga, dove il suo impiego presso l’Ambasciata sarebbe terminato circa un anno più tardi. Ma, naturalmente, tutto quanto riferito dalla giovane ai nostri Servizi d’informazione venne poi a conoscenza, anche con tanti dettagli, di quasi tutto il nostro personale.
I personaggi e i fatti qui liberamente raccontati, così come il periodo di tempo indicato, non sono immaginari; riguardano invece avvenimenti realmente accaduti ed ogni riferimento a persone o fatti reali non è puramente casuale. Se così non fosse, se si trattasse solo di una bella fiaba, mi piacerebbe concludere: “in seguito riuscirono ad incontrarsi nuovamente in Italia, si sposarono e vissero a lungo felici e contenti”. Ma non posso farlo, perchè non desidero inventare nulla e perchè, in verità, non so come questa storia, cominciata con un incontro veramente non tanto casuale, sia andata a finire. Ma sinceramente mi piace immaginare che, terminato il periodo di servizio a Praga di Antonio, i nostri due simpatici protagonisti abbiano poi potuto in qualche modo ritrovarsi davvero e che gli avvenimenti raccontati abbiano avuto comunque un lieto fine.
UNA FESTA DI CAPODANNO TRA ADDETTI MILITARI
Siamo a Praga nel bel mezzo della guerra fredda. Gli addetti militari in servizio presso le Ambasciate occidentali erano indaffarati come api per informare i loro superiori su come andavano le cose al di là della “cortina di ferro”, se possibile con ogni utile dettaglio in qualsiasi modo acquisito.
Da parte loro, gli appositi “servizi d’informazione” cecoslovacchi, con abbondanza di personale e di attrezzature, si davano da fare per limitare queste attività e soprattutto per ascoltare, con microfoni molto ben nascosti, quello che gli addetti militari raccontavano e le istruzioni che ricevevano.
Questi ultimi erano perfettamente al corrente delle attività dei “servizi” specializzati cecoslovacchi e viceversa. Era una specie di gioco del gatto col topo, con frequenti inversioni delle parti. Anche per questo motivo, gli Addetti militari della NATO assegnati alle Ambasciate “oltre cortina” erano di solito scelti tra qualificati ufficiali di non comune intelligenza e preparazione. Bisognava essere ben addestrati e preparati a tutte le mosse del gioco.
Vale la pena di ricordare che, per una ferrea legge non scritta, questi Addetti dovevano essere tutti inossidabilmente sposati. E’ chiaro che non si potevano correre rischi.
Era già successo in paesi di oltre cortina che qualche diplomatico occidentale un po’ imprudente si fosse lasciato andare a qualche avventura “sentimentale” o di altro genere, apparentemente banale ma in realtà molto ben organizzata e preparata su misura per lui. Per poi venire a trovarsi in situazioni seriamente imbarazzanti ed essere in seguito invischiato in pericolosi ricatti, tutti con ricca documentazione fotografica a suo discredito.
Era il 31 dicembre e un gruppo di questi brillanti militari inviati a Praga da paesi della NATO, accompagnati dalle loro immancabili consorti, aveva organizzato una bella serata di Capodanno nella casa di uno di loro. Erano di solito residenze molto confortevoli, accuratamente scelte dalle autorità del paese ospitante e date in locazione agli interessati. Era per loro una scelta quasi obbligata, perchè la proprietà privata di case virtualmente non esisteva e si poteva solo prendere in affitto quello che lo Stato metteva a disposizione. Tutti sapevano, naturalmente, che gli alloggi offerti ai diplomatici e specialmente agli addetti militari delle Ambasciate erano ben provvisti di sistemi d’ascolto abbstanza sofisticati per quell’epoca (le cosiddette “cimici” ed altro). Altrettanto naturalmente, ogni conversazione di carattere riservato veniva di regola rinviata in altri luoghi e ad altro tempo.
Erano dunque tutti allegramente riuniti a festeggiare e ogni invitato aveva portato qualcosa da bere, vini del suo paese o altri alcolici di ogni tipo per celebrare la ricorrenza e salutare degnamente il nuovo anno.
C’erano tutti gl’ingredienti per assicurare una serata spensierata e divertente tra colleghi ed amici. E così, di ottimo umore, si arriva agli ultimi minuti dell’anno. Allo scoccare della mezzanotte, scattano gli auguri in tutte le lingue e gli “Happy New Year” e “Buon Anno” si incrociano tra il tintinnare dei bicchieri.
Ma anche in momenti così rilassati, resta sempre sullo sfondo il pensiero del servizio al quale si è addetti. E uno di loro leva in alto il suo calice e in una delle lingue della NATO intona: “E buon anno anche a voi che ci ascoltate”. Tutti si associano e ridendo gridano insieme gli auguri alle loro ignote controparti.
I brindisi continuano e la festa va ancora avanti secondo l’ordine prestabilito. Dopo una ventina di minuti circa, squilla il telefono. Uno dei presenti alza il ricevitore e subito una voce gli grida due volte “Happy New Year” e prontamente riattacca.
Non c’era alcuna prova che fossero proprio “loro” a telefonare: la voce non aveva detto “grazie” o “buon anno anche a voi” o altre parole che potessero far pensare ad una deliberata risposta. Dopotutto, a chiunque può saltare in mente di fare una telefonata anonima di auguri nella notte di Capodanno. Ma tutti i convitati decisero sul momento che il loro spontaneo messaggio di auguri era stato ascoltato e prontamente ricambiato con le stesse simpatiche intenzioni.
CELEBRAZIONI DEL 4 NOVEMBRE A BELGRADO
Siamo a Belgrado, quando la Jugoslavia era ancora un paese unito, formato da sei stati federati, con Tito Presidente.
Occorre ricordare che la Jugoslavia, come paese, era nata a conclusione della prima guerra mondiale.
Quando l’armata serba in rotta rischiava di essere annientata dagli eserciti austro-ungarici era stata proprio l’Italia e in particolare la Marina italiana ad intervenire per trasportare in sicurezza le truppe disperatamente in fuga.
L’insostituibile contributo dell’Italia al salvataggio di una parte importante delle forze armate serbe – gli antichi romani dicevano che chi aiuta subito dà il doppio (bis dat qui cito dat) – non era stato dimenticato nella nuova Repubblica jugoslava, uscita rafforzata al termine della seconda guerra mondiale.
Il 4 novembre di ogni anno, già anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale, oltre ad essere occasione per la celebrazione della giornata delle Forze Armate italiane, veniva solennizzato a Belgrado anche con una cerimonia nel cimitero militare: una compagnia di soldati jugoslavi, in uniforme da parata e armati fino ai denti, rendeva gli onori militari ai soldati italiani caduti mentre combattevano in aiuto delle truppe serbe.
Era una cerimonia abbastanza semplice, alla quale partecipavano oltre all’Ambasciatore e al restante personale dell’Ambasciata italiana a Belgrado, tutti gli Addetti militari dei paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, un sacerdote e rappresentanti ufficiali del governo. Il sacerdote ricordava con parole appropriate il sacrificio del soldati italiani e la solennità della circostanza; quindi, dopo un momento di raccoglimento e di preghiera, l’Ambasciatore italiano saliva per un breve vialetto fino all’altare dove deponeva una corona di fiori con i colori della bandiera italiana, mentre i soldati presentavano le armi. Tutto andava avanti piuttosto rapidamente e la cerimonia si concludeva con tre salve di fucileria che, venendo da un’intera compagnia munita di grossi fucili che sembravano cannoncini, produceva un rumore assordante.
Tanti spari, tutti nello stesso istante, si sommavano insieme a formare uno schianto secco e lacerante, ripetuto tre volte in pochi momenti. Più di una signora – il personale veniva accompagnato dalle mogli – ne restava scossa al punto che le venivano le lacrime agli occhi.
Quell’anno l’Ambasciatore era assente e il compito di accompagnare la corona di fiori all’altare toccava all’Incaricato d’Affari, persona affabilissima, di grande cordialitá e cortesia, ma di carattere piuttosto ansioso. Era arrivato da alcuni mesi soltanto e non aveva quindi partecipato alle commemorazioni degli anni precedenti.
Egli, con due militari che trasportavano la corona si dirige verso l’altare dove era ad attenderlo il sacerdote, fiancheggiato nel suo percorso dagli altri partecipanti immobili e disposti in due file ordinate, con la compagnia di soldati schierata dietro di lui, formando così il lato piú basso del rettangolo.
Serio e compunto come si conviene al momento, l’Incaricato d’Affari, tutto vestito di scuro, sale verso l’altare come un agnello destinato al sacrificio. Infatti non sa nulla dell’imminente esplosione, della terribile triplice salva di fucileria, che scoppierà dietro le sue spalle. Non lo sa perchè tutti noi, con sottile crudeltà, avevamo concordato di mantenere la consegna del silenzio, pronti a pregustare con sadico piacere il momento degli spari in cui avremmo potuto osservare da vicino le sue prime reazioni.
Il sacerdote e la vittima predestinata depongono la corona ai piedi dell’altare, danno un’aggiustatina ai due nastri tricolori per dimostrare visivamente la loro personale partecipazione e restano immobili sull’attenti rivolti verso l’altare, mentre alle loro spalle la banda militare intona gl’inni nazionali dei due paesi e i soldati presentano le armi.Poi segue,in serbo, una serie di ordini secchi impartiti dall’ufficiale, incomprensibili a tutti tranne che al picchetto d’onore, che, ubbidientemente, punta i suoi fucili in alto e fa partire la prima rimbombante salva.
Il nostro funzionario, che era rimasto immobile e un po’ curvo guardando la ghirlanda di fiori,all’improvviso schianto dei fucili si rialzò di scatto e, forse nel raddrizzarsi, portò le mani alla schiena quasi come per parare i colpi, aumentando così l’impressione di essere stato fucilato alle spalle. Si volse quindi a guardare indietro sbigottito e con un’espressione stralunata verso di noi che assistevamo con aria impassibile alla scena. L’unico dei presenti che sembrava essersela veramente goduta era il sacerdote, del tutto ignaro, ma di certo divertito dalla reazione e dalla evidente sorpresa dell’Incaricato d’Affari. Poco dopo, infatti, arrivati al momento dei saluti, il buon cappellano cercava inutilmente di nascondere, dietro larghi sorrisi e vigorose strette di mano, la sua sana voglia di farsi una buona risata.
*****
Un altro quattro novembre, la stessa cerimonia, questa volta con la presenza del nostro Capo Missione, offrì all’Ambasciatore italiano l’opportunità di compiere un gesto di stima e di riconciliazione nei confronti degli austriaci, già nostri avversari nel primo conflitto mondiale.
Il giorno prima si celebrava, con un ricevimento offerto in Ambasciata dal nostro Addetto militatre, la giornata delle Forze Armate italiane e, poco prima di salutare, gli Addetti militari dei paesi che erano usciti vincitori dalla prima guerra mondiale si davano reciprocamente appuntamento per la mattina seguente al cimitero per la tradizionale commemorazione in onore dei caduti italiani. Era presente, tra quelli che attorniavano il nostro padrone di casa, l’Ambasciatore italiano in Jugoslavia, Walter Maccotta, anche l’Addetto militare austriaco, che assisteva, ma tenendosi un pò in disparte e tradendo un leggero imbarazzo, alla scena dei saluti e dei ripetuti arrivederci all’indomani.
“Venga anche Lei” – vedendolo, gli si rivolge invitante il nostro Ambasciatore, con un sorriso cordiale.
“Ma, veramente, mi sentirei fuori posto, l’Austria combatteva dall’altra parte in quella guerra” – cerca di scusarsi un po’ a disagio l’Addetto militare.
“Certo, ma tanta acqua è passata sotto i ponti, ora siamo due nazioni amiche e la guerra è tanto lontana. Venga, Le darò un segno di particolare riconoscimento”.
Il colonnello austriaco rimase un po’ dubbioso, e salutò senza confermare, ma senza dire di no. La mattina dopo era anche lui presente con gli altri Addetti militari al cimitero.
La cerimonia procede secondo il programma prestabilito, senza alcuna variante. Alla conclusione, terminate le salve di fucileria, si passa ai saluti. L’Ambasciatore Maccotta ringrazia personalmente gli Addetti militari intervenuti, stringendo ad ognuno la mano. Quando arriva al Colonnello austriaco, lo ringrazia vivamente, guardandolo fisso negli occhi e, invece di dargli la mano, lo stringe in un abbraccio fraterno.
UNA ORCHIDEA IN TERAPIA INTENSIVA
Eravamo a Belgrado, in pieno inverno. Il nostro lavoro in Ambasciata era molto impegnativo per tutti, ma anche ricco di soddisfazioni. La Jugoslavia del presidente Tito, allora leader dei paesi “Non Allineati” rappresentava una evidente cerniera tra est ed ovest nello scacchiere internazionale. La capitale non mancava di disagi, tra l’altro molti prodotti importati erano assolutamente introvabili, ma aveva anche i suoi vantaggi. Si potevano conoscere nell’ambiente diplomatico persone di alto livello sotto il profilo professionale, culturale e intellettuale. La situazione e il momento politico erano favorevoli a nuove e buone amicizie. Tra gli altri, devo ricordare un bravissimo primario chirurgo belgradese che avevamo incontrato in Ambasciata e che era diventato nostro buon amico, ancora prima che pensassimo di dover sperimentare le sue capacità professionali. Al vederlo senza conoscerlo, qualcuno avrebbe potuto definirlo “un buon pacioccone” o, meglio detto, un simpaticone; in realtà era molto esperto nel suo lavoro e aveva un’intelligenza intuitiva. Solo che per la cordialità e il suo aspetto fisico richiamava piuttosto alla mente un bravo allenatore di squadra di calcio inglese.
Eccoci allora in quel freddo gennaio: una coppia di amici italiani di passaggio aveva trascorso da noi il fine settimana, prima di proseguire il loro viaggio e, come gentile omaggio per la padrona di casa, avevano portato a mia moglie una bellissima orchidea.
Un fiore grande, dai colori delicati, accuratamente confezionato in un letto di finto muschio verde, in una scatola, tipo da scarpe, fatta in plastica trasparente, molto ben chiusa, ma con forellini per far respirare l’orchidea. A questa era applicato, sul punto dove era stata recisa, un piccolo serbatoio sigillato contenente una soluzione nutriente adatta a mantenere fresco il fiore il più a lungo possibile.
Come ho accennato, in quei tempi, era impensabile poter comprare in Jugoslavia qualcosa di simile, per giunta in inverno, quando non si trovavano neanche i limoni. Proprio per questo, il loro regalo, espressione della vecchia amicizia, ma anche, già allora, del livello di tecnologia e di abilità dei fiorai italiani, era stato da noi molto apprezzato.
Per coincidenza, appena partiti i nostri amici, mia moglie doveva essere ricoverata in ospedale (si trattava di una data già stabilita da tempo proprio con l’ottimo chirurgo jugoslavo, già nostro buon amico) per sottoporsi a un’operazione abbastanza impegnativa, anche se non di particolare gravità. Tutti i necessari esami clinici preliminari erano già stati fatti.
L’operazione era quindi fissata quasi subito dopo il ricovero. L’intervento durò molto più a lungo del previsto, ma senza grossi rischi. Mi telefonarono tempestivamente in Ambasciata che tutto era andato bene e il bravo chirurgo mi informò che, eccezionalmente, avrei potuto visitare la paziente nel pomeriggio, una volta terminati gli effetti dell’anestesia, già nel reparto di “rianimazione” o terapia intensiva.
Al momento di uscire di casa per andare in ospedale, mi colpì l’attenzione, sola e abbandonata nel salone da pranzo in quel momento deserto, la splendida orchidea che faceva bella mostra di sé nella sua scatola trasparente. Vederla, prenderla e portarla con me fu l’affare di un momento e mi sembrò la cosa più naturale del mondo.
All’arrivo in ospedale mi fecero indossare quel tipo di camice color verde chiaro normalmente usato dai medici, con tanto di coppola verde, speciali soprascarpe ai piedi e mascherina alla bocca, prima di entrare in “terapia intensiva”.
Dopo precauzioni così attente per evitare di introdurre germi nell’ambiente, portare all’interno un fiore sarebbe stato rigorosamente vietato. Ma l’orchidea era così bella e appariscente, la sua scatola così ben chiusa, che il buon chirurgo, con un gran sorriso, mi fece passare lo stesso.
Mia moglie era lì che giaceva immobile e, anche se solo da poco uscita dall’anestesia, era già sveglia e cosciente; solo che aveva tanti tubicini che entravano e uscivano da tutte le parti. Accanto al letto c’era anche, appesa a un trespolo, una specie di bottiglia, dalla quale scorreva, goccia a goccia, un liquido trasparente che entrava nella vena del braccio attraverso un ago, fissato con tanti cerotti: “fleboclisi” mi pare che si chiami. Aveva poi qualcosa di strano collegato alla bocca, apparentemente per farla respirare meglio.
Quando mi vide entrare, così travestito da chirurgo, con tutto quel verde addosso e con la scatola dell’orchidea in mano, ella, benché quasi immobilizzata, ebbe un piccolo sussulto. Il suo atteggiamento era composto, proprio come ci si deve comportare in terapia intensiva, ma i suoi occhi spalancati che mi osservavano sembravano esprimere sorpresa e forse anche riprovazione, comunque non molto gradimento per il mio omaggio floreale.
Accompagnato dal chirurgo e da un’infermiera, anche loro naturalmente in verde pallido, mi avvicinai al letto con un grande sorriso (magari un po’ melenso) sulle labbra, porgendo simbolicamente il fiore, con parole adatte al momento. Mia moglie, guardandomi con espressione indecifrabile, mi rispose con uno strano mugolio, per fortuna incomprensibile.
In seguito, ristabilitasi dall’operazione, la gentile consorte commentò, senza giri di parole e con termini molto espressivi, la mia sfrontatezza. Ma, da persona sincera, mi raccontò anche che l’orchidea era stata oggetto di grande ammirazione, praticamente la favola dell’ospedale, dove tutti (specialmente infermiere e dottoresse) si domandavano come ero riuscito a procurarmela; e così parlavano con molta invidia della sensibilità e delle delicate attenzioni di “questi mariti italiani”.
Spesso si sente dire che, quando noi siamo all’estero, in un certo qual modo rappresentiamo l’Italia agli occhi degli stranieri e che perciò dobbiamo cercare di comportarci in modo da non far sfigurare il nostro paese. Visto il risultato, possiamo dire che arrivare in visita all’ospedale con la bella orchidea tra le mani, non era stata, tutto sommato, una cattiva idea.
UN HIPPY SOTTO LA BANDIERA
Il protagonista di questa storia potrá essere stato di circa quindici anni piú giovane di me; dunque, chissá, penso che gli potrebbe forse capitare un giorno di vedere queste righe e, magari attirato dal titolo, di leggerle.
In questo caso vorrei che sapesse che ricordo ancora vividamente quell’episodio, perché, forse per la prima volta nella mia carriera, mi resi conto allora che il nostro lavoro all’estero poteva essere molto vario e poteva anche offrire l’opportunitá di tendere una mano amica ad altri in caso di bisogno.
Era il grande momento “dei figli dei fiori”, chiamati anche comunemente “hippies”: conducevano una vita non convenzionale, tanto libera e apparentemente piacevole che io, obbligato giorno dopo giorno al mio lavoro, li avrei sinceramente invidiati, magari augurandomi di essere al loro posto, senza piú formalitá ed impegni, se non fosse stato per qualche aspetto della loro filosofia di vita. Per quanto potevo giudicare, vivevano uno stile di vita semplice, spontaneo e vicino alla natura, ma praticamente improduttivo, almeno nella maggior parte dei casi; di regola sopravvivevano grazie ai vaglia e alle rimesse bancarie di genitori compiacenti o preoccupati. Anche apprezzando molti dei loro ideali, non potevo condividere questo modo di costruire un mondo migliore.
Eravamo in India, in un caldo pomeriggio di sole ed io, in piedi nell’ufficio al primo piano delle segretarie-dattilografe, stavo dettando qualche mio componimento economico o commerciale.
Non si trattava certamente di argomenti terribilmente seri o impegnativi, ma, -l’avrei giurato,- non era di sicuro roba buffa o divertente. Insomma, non c’era niente da ridere. Eppure, tra una mia parola e l’altra, mi accorgevo che all’una o all’altra delle due segretarie sfuggiva una risatina, un mormorio, qua e là accompagnato da espressioni stranamente divertite.
Alla fine, convinto che le mie frasi burocratiche non potevano essere all’origine di tanto sommesso buonumore, domandai con garbo, ma molto seriamente, che cosa stava succedendo.
“Dottore, ma guardi giù”.
Mi avvicino alla finestra e nel giardino che circondava la nostra palazzina, proprio sotto l’asta della bandiera, vedo un giovane magro, seduto sull’erba, a gambe incrociate in una posizione che, credo, viene praticata negli insegnamenti dello Yoga, interamente nudo come Adamo.
Aveva composto accanto a sé in un bel mucchietto ordinato i suoi pochi vestiti e se ne stava seduto lì sotto, immobile, con la bandiera italiana che sventolava sopra la sua testa.
Interrompo subito quello che stavo facendo e chiamo il giovane funzionario incaricato delle questioni consolari e quindi dei rapporti con i nostri connazionali.
“No” – mi dice molto tranquillo – “é tutto a posto. Da tenpo viene qui per farsi dare dei sussidi in denaro, ma non ci é permesso mantenerlo regolarmente, non é previsto. Abbiamo organizzato per lui il rimpatrio consolare gratuito, ma si rifiuta fermamente di partire e preferisce restare qui chiedendo altri sussidi. E ora che non possiamo piú continuare a darglieli, ha scelto questa forma di protesta”.
- “ Ma l’Ambasciatore lo sa?”
- “Certo, ora é fuori, ma non preoccuparti, l’ho informato di tutto. Abbiamo giá mandato a chiamare la polizia”.
A dire il vero nonostante tanta tranquillità, non ero rimasto affatto convinto; ma, mi dissi, in fondo non é il tuo lavoro. Eppoi, se l’Ambasciatore é al corrente e sono già stati presi provvedimenti…
Basta, invito garbatamente le segretarie a tenere un atteggiamento piú professionale e ricomincio a dettare il mio compitino.
D’un tratto una di loro mi interrompe, concitata: “Dottore, guardi, faccia qualcosa!”
Guardo giú e vedo un baffuto sergente della polizia indiana, elegante nella sua semplice uniforme, accompagnato da due soldati muniti di robusti manganelli.
Non so come sia ora, ma a quel tempo la polizia indiana aveva in dotazione solidi bastoni di legno, molto piú lunghi del normale sfollagente e abbastanza somiglianti, anche nello spessore, a mazze da “baseball”.
Il sergente stava ordinando al giovane “hippy” di rivestirsi ed egli, senza rispondere, non faceva una mossa, ma guardava fissamente il terzetto, apparentemente impassibile e in silenzio.
Precipitarmi per le scale e raggiungere il gruppetto in giardino fu per me l’affare di un momento. Non potevo sopportare l’idea che un connazionale fosse preso a bastonate, inerme e nudo come un verme, proprio sotto la nostra bandiera; la piega degli avvenimenti non mi piaceva per niente.
Salutai educatamente il sergente e lo ringraziai per aver prontamente risposto alla nostra chiamata. Mi rivolsi quindi al giovane, io tutto vestito in un bel blu estivo, lui allo stato naturale, accucciato ai miei piedi e gli dissi le prime parole che mi vennero spontanee alla mente:
Ma perché si mette in queste condizioni?”
Egli mi guardó, pallido e serio solo per qualche momento e scoppió poi in un pianto dirotto. Era comprensibile il suo stato d’animo di estrema tensione, dopo che si era giá visto, indifeso, sotto quei pesanti randelli: la sensazione non doveva essere stata piacevole.
Gli spiego allora che non potevamo dargli altro denaro, che nel nostro lavoro dovevamo rispettare le leggi e che, avendo già beneficiato di numerosi susssidi, lui non poteva chiederci altro se non assistenza per il rimpatrio.
Con parole convulse, mi dice affannosamente che i soldi gli stanno arrivando, sono giá stati spediti, dovrebbero essere ormai qui, ha solo bisogno di un po’ di tempo; e ripete che non vuole andar via, non vuole assolutamente partire.
“Quanto le serve?”
Mi dice che deve pagare alcuni giorni “di albergo”, restituire qualche piccolo prestito “e qualcosa per mangiare”.
“Quanto in tutto?”
Pensavo mi sparasse una grossa cifra, ma quello che egli chiamava albergo doveva essere al massimo un sottoscala, perché mi domandó una somma veramente irrisoria che per me non rappresentava alcun sacrificio, ma solo un piccolo insignificante sforzo.
Gli detti quanto aveva chiesto.
“E’ un mio prestito personale” – aggiunsi – “ma è meglio che non si faccia piú vedere da queste parti; deve capire che ormai non possiamo fare altro per Lei, ammenocchè non decida di accettare il rimpatrio consolare”.
Mi rivolgo quindi al sergente indiano che, senza comprendere una parola, aveva assistito in silenzio a tutta la scena e lo ringrazio con grande cordialitá, spiegando che grazie al suo efficace intervento il caso si era felicemente risolto e che ora poteva andare.
Non ho piú rivisto quel giovane, ma so che non si è più presentato ai nostri uffici. Per parte mia, quel giorno sono rientrato a casa provando un caldo sentimento di soddisfazione nel cuore. Sentivo di aver fatto qualcosa di molto migliore del mio “brillante” dettato di poco prima.
Al mattino, dovevo portare il mio lavoro alla firma dell’Ambasciatore. Non potevo rimandare, ma ero un po’ titubante ed incerto sull’accoglienza che mi avrebbe riservato, dopo una cosí aperta sfida alle sue istruzioni. E mi domandavo come avrebbe reagito al vedermi. Mi ero preparato, comunque e sapevo cosa avrei potuto rispondergli.
Al mio entrare nel suo studio egli mi guardó seriamente per qualche momento, con quei suoi grandi occhi azzurri, un momento che per me sembró molto lungo, come se volesse dirmi qualcosa.
Poi ci ripensó. Non era cattivo, ma ci ispirava timore con quel suo modo di fare burbero e all’antica: quel che si dice “un burbero benefico”. Quindi in silenzio, quasi con timidezza, abbassó gli occhi sulle carte che gli avevo portato e si mise a firmarle.
L’ATTENTATO A GIOVANNI PAOLO II VISTO DA SANTO DOMINGO
Tutto il mondo fu colpito dalla notizia del grave attentato al Papa in Piazza San Pietro, nel maggio 1982. Anche in Repubblica Dominicana, dove allora ero in servizio come Ambasciatore, l’evento fu vissuto con ansia e trepidazione per le condizioni del Pontefice. Ma soprattutto, si capisce, nell’Ambasciata italiana e nella Nunziatura Apostolica.
In quegli anni, quando il telefax era ancora poco utilizzato, il modo più rapido per ricevere notizie aggiornate, in forma scritta, era la telescrivente. In Ambasciata ne avevamo una e naturalmente era nostra cura ritagliare tutte le informazioni sulla salute del Papa per inviarne immediatamente copia al Nunzio Apostolico, che era allora Mons. Gravelli, persona di grande bontà e di straordinaria saggezza.
Tra noi due era presto nata una buona amicizia favorita da un nostro comune modo di sentire, dal fatto di essere entrambi italiani e, per parte mia, dal desiderio di attingere alla sua grande esperienza. Egli era amato anche dai nostri due figli: il più piccolo lo chiamava “Nunzio” convinto che quello fosse il suo nome.
Era il giorno dopo l’attentato ed io commentavo per telefono con Mons. Gravelli le ultime notizie ricevute dall’ANSA, già da me inviate alla Nunziatura. Ci chiedevamo quale fosse la reale gravità delle condizioni del Papa e quali possibilità avesse di sopravvivere all’attentato e di ritornare in buona salute.
A questo punto mi ritornò alla mente un libro che avevo comprato in edizione economica circa 11 anni prima, mentre ero in India. Un racconto delle predizioni fatte dalla “veggente” americana, di nome Jean Dixon, la quale era da tempo divenuta famosa per aver “visto” molto in anticipo e preannunciato pubblicamente la sua visione dell’attentato mortale al Presidente John Kennedy.
Dissi al Nunzio che ricordavo che in quel vecchio libro si parlava anche di un Papa ferito in un attentato, ma che la veggente affermava di sentire che non sarebbe morto.
Non avendo casa in Italia, avevo portato con me a Santo Domingo tutti i miei libri e andai subito a cercare il volumetto.
Richiamai la Nunziatura dopo averlo trovato e lessi a Mons. Gravelli la parte in cui Jean Dixon parlava dell’attentato. Non era una descrizione molto dettagliata. Dunque, narrando la sua visione,l’autrice aveva visto in un’aria divenuta rarefatta, una formazione nuvolosa, aveva riconosciuto la “Santa Madre” circondata da raggi di luce e tra le nuvole sopra di lei aveva letto la parola “Fatima”. Aveva allora intuito che il terzo segreto di Fatima le sarebbe stato rivelato. Subito dopo aveva visto un Papa a lei sconosciuto – all’epoca della stampa del libro, Karol Woitila non era ancora stato eletto – con la tonaca bianca insanguinata e visibilmente sofferente. Ma aveva anche sentito dentro di sé che sarebbe sopravvissuto alla ferita.
Avevo quasi finito di leggere quella pagina che il Nunzio mi interruppe:
“Ma ieri era la festa della Madonna di Fatima!”
Naturalmente non potevo sapere di questa straordinaria coincidenza di date e alle parole del Nunzio rimasi sorpreso e profondamente colpito.
Non avevo mai dato molto peso alle predizioni riportate nel libro, anche perchè in alcuni casi la veggente, se le sue visioni non erano abbastanza chiare, tendeva ad interpretarle a modo suo. E, non essendo persona di profonda cultura su argomenti di politica, religione o rapporti tra gli Stati, le sue interpretazioni – come la previsione di una guerra tra Stati Uniti e Cina – mi avevano lasciato piuttosto scettico.
Ma ora mi trovavo con il suo libro tra le mani, acquistato tanti anni prima, nel quale si parlava (a pagina 177) di un attentato al Papa, in relazione al terzo segreto di Fatima e, almeno secondo le apparenze, in qualche modo si indicava addirittura il giorno in cui sarebbe avvenuto.
Naturalmente, il Nunzio era vivamente interessato a conoscere il testo che gli avevo letto e mi chiese in prestito il libro. In seguito mi disse che ne aveva mandato un estratto al Vaticano, con commenti appropriati.
Circa un anno dopo, quando il Santo Padre si recò in visita a Fatima, il vice-Nunzio – purtroppo Mons. Gravelli era morto improvvisamente nel dicembre 1982, durante un viaggio in Italia – mi disse che, secondo lui, l’invio al Vaticano del testo con la predizione e la sua possibile più ampia interpretazione – intercessione della Madonna di Fatima per la salvezza del Papa - potevano aver contribuito alla decisione del Pontefice di andare in pellegrinaggio a Fatima. Conserviamo ancora quel vecchio libro (A Gift of Prophecy, 1963).
Verso la fine di quello stesso anno 1982 avevamo organizzato nei giardini della Residenza una degustazione di vini italiani, con la partecipazione di numerosi Ambasciatori, membri del Corpo Diplomatico e della società locale. L’indomani ci trovavamo con la casa inondata da bellissimi fiori inviati in omaggio da molti invitati.
Chiamai al telefono il Nunzio per dirgli che avremmo con piacere donato buona parte dei fiori per la Cappella della Nunziatura, ma essendo domenica non avevo a quell’ora l’autista. Venne quindi lui stesso di persona a ritirarli con una autovettura privata. Parlammo del più e del meno e del suo prossimo viaggio in Italia.
Poi caricammo la sua macchina con i fiori ed egli partì salutandomi con la mano mentre percorreva lentamente il vialetto dell’Ambasciata. Ricordo che mi fece profonda impressione vederlo allontanarsi così circondato dai fiori e forse ebbi un oscuro presentimento a quella vista. Oppure, se così si preferisce, quella sua partenza con la macchina piena di fiori può essere interpretata come un segno di estremo omaggio a quell’uomo buono che se ne andava. Fu l’ultima volta che lo vidi.
La notizia della improvvisa morte in Italia del Nunzio Apostolico fu accolta a Santo Domingo con costernazione e rimpianto. Il governo proclamò una giornata di lutto nazionale. Mia moglie ed i miei figlioletti lo piansero come una persona di famiglia, come il fratello e l’amico che era divenuto per noi. Non potrò mai dimenticarlo e immagino a volte che forse egli mi dia consigli dalla sua sfera, proprio come potrebbe un vecchio amico.
Vittorio Pennarola